Il Mattino
10/03/2002
In cammino verso l'altra Europa
Problemi, aspirazioni e prospettive per l'allargamento dell'Unione
Alla Scuola Grande di San Rocco a Venezia si è svolto ieri mattina un convegno internazionale su "L'allargamento dell'Unione Europea-Coesione economica e sociale" al quale è intervenuto anche il Presidente della Commissione europea Romano Prodi: l'articolo che pubblichiamo è una parte dell'intervento-riflessione di Predrag Matvejevic, in rappresentanza della Fondazione Laboratorio Mediterraneo.
SCENARI
DEL FUTURO
Predrag Matvejevic
Confondere la civiltà europea con la civiltà universale, è una tentazione ben
nota in Europa. Dare ad una realtà concreta e contingente un significato quasi
assoluto è un errore comune. Sarebbe più utile in quest'occasione discutere
delle aspettative e delle attese di una parte dell'Europa nei confronti dell'altra.
Occorre, forse, innanzi tutto definire o chiarire alcuni concetti e termini.
Europa dell'Est è stata una designazione più politica e ideologica che geografica
e culturale, imposta dalla Seconda guerra mondiale e dalla Guerra Fredda. Questo
nome è diventato desueto, viene sostituito da un altro, altrettanto impreciso:
Europa centrale e orientale. L'Europa centrale comprende anche paesi che - come
l'Austria o la Svizzera - non sono stati assoggettati dai regimi «comunisti»
dell'Est.
L'Altra Europa è anch'essa una nozione mal definita, forse di proposito. Che
cos'è altro in questa parte dell'Europa e che cos'è europeo in questa alterità?
Nessuno ha risposto a questa domanda, non so nemmeno se sia mai stata formulata.
L'Europa nel suo insieme non è più ciò che era una volta. Anche quello che chiamavamo
il Terzo Mondo è cambiato e alcuni parlano già di un Quarto Mondo. Una parte
dell'Altra Europa dei giorni nostri fa apparentemente parte del Terzo Mondo:
resti dell'impero sovietico, vestigia dell'antica Russia, della Bielorussia
o dell'Ucraina, gran parte della ex-Jugoslavia disgregata, i confini dei Balcani,
della Bulgaria, dell'Albania o della Romania, fors'anche della Grecia o della
Turchia. Dopo un rivolgimento tanto violento quanto inatteso, le nozioni di
Europa occidentale e orientale sembrano finalmente corrispondere ai punti cardinali.
Ci si potrebbe rallegrare di questo buon uso delle parole se le cose in sé si
presentassero diversamente. Se l'Altra Europa è una denominazione ambigua, la
realtà cui si riferisce non lo è di meno. Oggi questa realtà la possiamo scorgere
come è o come dovrebbe essere. La retorica si adatta a queste ambivalenze. La
politica ne trae vantaggio. La retorica politica ne abusa.
Si tratta di pensare l'Europa prendendo in considerazione i valori della cultura
e della civiltà che la caratterizzano. Evitare di adottare solo i progetti particolari,
che talvolta nascondono piatti interessi politico-economici. Questo sembra essere
di massima urgenza nel momento in cui l'Europa stessa crea la sua definizione
e prepara, non senza difficoltà, una Convenzione sul futuro dell'Europa, specie
di Costituzione per i suoi membri (o un Trattato di costituzione, come è stato
detto questi giorni). L'allargamento dell'Unione europea conferisce ad un tal
compito una straordinaria rilevanza. Ogni tentativo simile esordisce o si conclude
con una domanda ad un tempo banale ed imprescindibile: «Quale Europa?» L'abbiamo
sentita, tante volte, in diversi contesti, dall'Europa del carbone e dell'acciaio
fino a quella di Maastricht e dell'euro. Forse è utile rievocare alcuni termini
in cui quella domanda era posta e salvare dall'oblio alcune idee dei nostri
predecessori. Alcune di esse hanno conservato tutta la loro attualità: «L'Europa
sarà seria o non sarà... Sarà più scientifica che letteraria, più intellettuale
che artistica. Per molti di noi questa lezione sarà crudele». Così ci ammoniva
Julien Benda nel suo Discorso alla nazione europea, scritto alla vigilia di
una guerra che sarebbe stata europea prima di diventare mondiale. Potremmo modificare
alcuni accenti di tali messe in guardia o apportarvi, nello stesso spirito,
qualche aggiunta.
Sarebbe auspicabile che l'Europa odierna fosse meno eurocentrica di quella del
passato, più aperta al cosiddetto Terzo Mondo dell'Europa colonialista, meno
egoista dell'«Europa delle nazioni», più Europa dei cittadini e meno Europa
degli stati che si sono fatti tante guerre fra loro. Una Europa più consapevole
di se stessa e meno soggetta all'americanizzazione. Sarebbe utopistico aspettarsi
che diventasse, in un futuro prevedibile, più culturale che commerciale, più
cosmopolita che comunitaria, più comprensiva che arrogante, più accogliente
che orgogliosa e, in fin dei conti, perché no, più socialista dal volto umano
(nel senso che i dissidenti dell'ex Europa dell'Est, per esempio un Sacharov,
davano a questo termine) e meno capitalista senza volto. L'Europa dei valori
non permetterebbe che si chiedesse, per entrare nell'Unione europea, di passare
per la Nato: è un tipo di purgatorio che avrebbe rifiutato.
È legittimo chiedere quale sarebbe l'«altra Europa», che si trova di fronte
a queste alternative. Nella maggior parte dei cosiddetti «paesi dell'Est», il
post-comunismo non è ancora riuscito a «raggiungere» i regimi che si dicevano
comunisti (come livello di vita e di produzione, scambi economici, sicurezza
sociale, regime pensionistico, eccetera). Per citare solo un esempio: la Slovenia,
uno dei nuovi stati meglio partiti, con uno statista illuminato a capo, ha messo
quasi otto anni per raggiungere la stessa Slovenia - la sua produttività dell'inizio
degli anni novanta. Questa considerazione non ha lo scopo di riabilitare le
pratiche ben conosciute di un socialismo che si è autoproclamato «reale». Le
transizioni di questi paesi durano molto più a lungo del previsto. Riescono
soltanto eccezionalmente a diventare vere trasformazioni. (Occorre distinguere
meglio queste due nozioni: la transizione è basata su ipotesi, la trasformazione
è un risultato). Il cattivo odore dell'ancien régime ristagna ancora in molte
zone del nostro continente e fuori di esso. Si tratta di una realtà che sembra
già compiuta pur senza concludersi o raggiungere una forma accettabile. È una
situazione difficile da sopportare e dalla quale non ci si riesce ad affrancare.
Molti becchini si danno invano da fare, senza riuscire a sbarazzarsi delle spoglie.
È un ruolo tutt'altro che gradevole.
Più di un regime proclama in modo ostentato la democrazia senza pervenire a
fornirne un'apparenza appena credibile: tra passato e presente si determina
uno iato, tra presente e avvenire si svolge l'ibrido incontro tra un auspicio
di emancipazione e un residuo di assoggettamento. Da più di otto anni, io chiamo
questo non-luogo ambiguo con il nome di «democratura». Vi si fanno spartizioni
senza che rimanga granché da spartire. Si è creduto di conquistare il presente
e non si riesce nemmeno ad avere ragione del passato. Vi nascono certe libertà
senza che si sappia sempre cosa farne, rischiando di abusarne. In questi paesi
è stato necessario difendere un patrimonio nazionale - ed oggi bisogna, in molti
casi, difendersi da quello stesso patrimonio. Altrettanto dicasi per la memoria:
si doveva salvaguardarla - ed essa sembra adesso voler punire quelli stessi
che l'avevano salvata.
So bene che non si possono generalizzare queste constatazioni un po' forzate:
ciò che vale per l'Albania, o per certe componenti dell'ex-Jugoslavia, non può
essere applicato allo stesso titolo per la Bulgaria, la Romania o la Russia.
La situazione bulgara, rumena o russa non è comparabile con quella dell'Ungheria,
della Polonia o, soprattutto, con quella della Repubblica Ceca o della Slovenia.
Il ritorno al passato è soltanto una chimera, il ritorno del passato è una vera
tragedia.