ABDELLATIF LAÂBI
La scrittura e la scelta degli interrogativi
Capita che uno scrittore, stanco degli «interrogatori» bene o male
intenzionati a cui si presta per abitudine, provi la necessità di elaborare le
sue domande, di interrogarsi egli stesso su quelli che gli sembrano essere i
motivi ragionevoli o irragionevoli della sua scrittura e della sua vita.
Lo scrittore maghrebino sente forse più degli altri questa
necessità di interrogativi che vadano al cuore della sua esperienza e che allo
stesso tempo tengano conto delle condizioni particolari (storiche, sociali,
economiche e culturali) in cui svolge la propria attività di creatore e di
cittadino.
C'è da dire che solo raramente gli si offre questa soddisfazione.
Si capisce quindi perché lo irritino domande del tipo: «Perché scrive in
francese?», «In quale lingua pensa?», «Per chi scrive?». Di fronte a questa
insistenza che ben presto si tramuta in incomprensione e in un dialogo fra
sordi, è costretto a indietreggiare e a diventare il proprio lettore e commentatore.
Non è un esercizio facile. Comporta dei rischi. Ma, per molti di noi, è un
rischio obbligato se vogliamo rendere giustizia alla nostra esperienza e
metterla nella giusta luce.
Ecco una sfida che ho lanciato a me stesso e che adesso devo
raccogliere.
Andrò subito all'essenziale dicendo che per me, oggi come ieri, la
scrittura non va da sé. Non che debba trovare una legittimità per esistere. La
letteratura non è, come si potrebbe credere, il campo privilegiato della virtù.
È un campo quasi come gli altri, in cui imperversano le contraddizioni e le
passioni umane con il loro seguito di interessi, di giochi di potere e di
seduzioni, di gelosie e di complicità, di bontà e di bassezze, di verità e di
errore, di volontà di potenza e di dono altruistico di sé. E, in questo vasto
teatro della coscienza umana, lo scrittore non è poi quella roccia solida che
si potrebbe credere: una persona vigile che non conosce il sonno, un genitore
permanentemente fecondo. È anche un essere come gli altri, vittima di debolezze
e sottomesso al dubbio.
Anche lo scrivere è per me una lotta in cui devo vincere
costantemente su me stesso. I motivi su cui si fonda la scrittura non mi sono
stati dati una volta per tutte. A ogni tappa devo riconquistarli. Perché? Forse
perché talvolta ho la sensazione di essere un traditore quando mi accontento
semplicemente di scrivere e, per parafrasare chi conoscete, quando non faccio
che tentare di interpretare il mondo lasciando ad altri il compito di
trasformarlo? O si tratta forse di una sensazione altrettanto strana che mi
porta di volta in volta a rivoltarmi contro la tirannia della scrittura quando
questa si esercita a scapito degli altri miei desideri, in primo luogo quello
di vivere, vivere solamente ma pienamente, senza dover rendere conto alla
vampira che è la pagina bianca e a questi amabili cannibali che la leggono per
giudicare la mia forza, la mia lucidità o le mie debolezze? Non vi rivelerò un
segreto dicendovi che mi è successo di indire uno sciopero della scrittura e
che di conseguenza ho conosciuto dei momenti di tregua deliziosi. Suppongo che
altri scrittori abbiano vissuto ciò che ho descritto e che un giorno o l'altro
abbiano aspirato a ciò che la principessa di Clèves aveva mormorato quando si
era infine ritirata dal mondo e dalle sue passioni: «È abbastanza essere».
Ricordatevi anche di Rimbaud. La sua fuga in Abissinia non procede
forse dalla stessa logica, dallo stesso terrore sperimentato di fronte al
carattere demoniaco della poesia? Si potrà farmi notare che i processi di
rimessa in causa non sono eccezionali. La storia della letteratura e la vita
movimentata degli scrittori ne sono costellati. Ne convengo. Voglio tuttavia
precisare che se le questioni della letteratura sono ricorrenti e universali, i
relativi termini così come la relativa acutezza variano a seconda del luogo -
più in senso sociale e culturale che non geografico - da cui vengono emessi.
Nell'area occidentale, soprattutto dall'Illuminismo in poi, l'atto di scrivere
va da sé. Lo scrittore ha acquisito una funzione: si è messo in una posizione
in cui il poter esercitare il proprio mestiere secondo le proprie aspirazioni è
iscritto in una logica dei bisogni della società. II libro e gli altri modi di
espressione culturale sono riconosciuti come valori in sé. L'evoluzione della
società non può più essere concepita senza di loro. Lo scrittore non si pone
più la domanda della validità della sua pratica e del riconoscimento della sua
funzione. È vero che nei momenti di grande tensione sociale e politica, in
particolare nelle tragedie delle ultime guerre mondiali, alcuni scrittori hanno
potuto dubitare del senso e della validità della loro modalità d'espressione,
mentre altri non hanno esitato, per combattere 1'orrore e I'inumano, a
sopravvalutare il proprio compito e le proprie prerogative; ma questi momenti
di fluttuazione o di deriva restano malgrado tutto circoscritti e non
modificano percettibilmente il disegno della loro funzione.
Per uno scrittore del Sud o della periferia del mondo, la
situazione è completamente diversa. Scrivere non va da sé, come ho già detto. È
un'azione che riveste spesso un carattere di trasgressione. Scrivere equivale a
violare la legge del silenzio, imposta dalle tirannie al potere, e il consenso
sociale, che sia d'ordine morale, religioso o patriottico. Inoltre il fatto di
scrivere non è un'attività normale in una società ancora dominata dalla
tradizione orale e prigioniera dell'analfabetismo.
La liminarità dello scrittore è dunque oggettiva prima di essere
soggettiva. La sua funzione rimane incerta e deve essere l'oggetto di una lotta
governata da un rapporto di forze diseguali. Il libro non è ancora percepito
dalla gran parte della popolazione come un bisogno, un valore a fortiori
generatore di un benessere intellettuale e spirituale. II ruolo dello scrittore
in tali società è dunque ipotetico.
Di conseguenza la scrittura non riveste lo stesso significato. Ai
tormenti quotidiani se ne aggiungono altri che la minacciano nelle sue
fondamenta, senza parlare della questione della leggibilità e dell'impatto
reali. E il tormento forse più crudele è quello che va al cuore della pratica
letteraria stessa, definita come la pratica più intransigente della libertà.
Quando lo scrittore del Sud rifiuta l'esilio - o non se ne può
permettere il lusso - e deve scrivere in periferia, sa, a meno che non menta a
se stesso, che dovrà rinunciare, in un modo o nell'altro, a questo assoluto
della libertà, a cui dovrà rifare il trucco con degli artifici letterari. È per
questo che il tempo dei proferitori, degli illuminati dalla scrittura, degli
obiettori di coscienza, dei ribelli ardenti e dei suicidi del consenso sembra
oggi sospeso, per non dire chiuso, nelle nostre società fino a nuovo ordine. È
per questo che i nostri martiri sono sempre più spesso martiri dei conflitti
politici e non già della lotta delle idee e della sovversione letteraria. Gli
assassini che infieriscono qua e là hanno le idee molto chiare a questo
proposito. Tahar Djaout, ad esempio, è stato abbattuto in quanto avversario
politico, non per 1'audacia della sua opera letteraria che i suoi assassini non
hanno comunque mai letto. II giovane che ha pugnalato alla nuca Naguib Mahfouz
ha creduto di eliminare un empio, un nemico di Dio. In altre circostanze,
avrebbe potuto essere uno della folla di ammiratori dello scrittore che
mendicava un autografo.
Anche la questione della responsabilità degli intellettuali, dì
cui si parla da decenni, si pone oggi in altri termini rispetto all'impegno o
alla tesi dell'intellettuale organico. Un tempo la responsabilità significava
t'adesione morale e fisica alle lotte che si preannunziavano decisive contro
l'oppressione, lo sfruttamento e l'ingiustizia. L'intellettuale faceva parte
dello schieramento degli umiliati e degli offesi e le sue aspirazioni si
identificavano con quelle dello schieramento. La barbarie che fustigava non
poteva essere che quella dell'ideologia dominante, dei crimini e delle
turpitudini commessi dalle classi dominanti, esecutrici cupide e servili
dell'imperialismo.
Dio come erano semplici le cose, chiari ì compiti, nobili le
aspirazioni e immensi i sogni! Ciò che motivava ancor di più l'intellettuale in
questa fase era che, sposando questa causa, aveva la sensazione di poter agire
e fare evolvere la lotta nel senso delle sue stesse esigenze. Il suo bersaglio
non era solo politico. Era il vecchio mondo che egli sperava di veder crollare.
Era il vecchio uomo che egli voleva mondare dalle vecchie idee. La libertà di
parola non era ancora così limitata come si potrebbe credere. L'intellettuale
non esitava ad attaccare i tabù, a prendere vie che rasentavano 1'eresia,
approfittando della credibilità che gli conferiva la sua posizione di
combattente giustiziere. La venerazione di cui era talvolta circondato gli
permetteva di dare alle attività politiche una dimensione cosmica, cioè
messianica, Le sue abitudini erano ora mal viste dai guardiani dell'ortodossia
ideologica, ora considerate con indulgenza poiché preventivate come capricci e
fantasie di questi esseri necessariamente bizzarri che sono gli intellettuali e
i poeti, d'altronde così utili.
Che ne è oggi di questa responsabilità? Credo che si sia spostata
dall'esterno verso l'interno. Il poeta - in quanto simbolo dell'intellettuale -
è stato cacciato dalla Città e, avendo intrapreso un cammino errante, si trova
in disparte rispetto alla carovana. 1 suoi legami con la tribù fraterna - il
suo popolo - si sono allentati. Egli constata con sgomento che le masse che
dovevano lanciarsi all'assalto del cielo per rigenerare il mondo e l'uomo hanno
dovuto soccombere qui o là al canto delle sirene barbute che promettevano loro
una giustizia sbrigativa e dei paradisi più convenzionali, quindi più sicuri.
II campo delle idee - in particolare delle idee nuove - si è enormemente
ristretto per fare spazio a un nuovo commercio, quello del prêt-à-porter delle
idee. Quando una comunità si dibatte in problemi di sopravvivenza materiale, si
focalizza sui bisogni urgenti, in particolare quelli del tubo digerente, e
diventa sorda alla sfumatura dei discorsi, cieca alle proiezioni visionarie.
Questo restringimento e questa sospensione del pensiero hanno come
effetto quasi meccanico il rifiuto del dibattito razionale, di ciò che si
chiama con disprezzo il «raziocinio intellettuale»; producono naturalmente
l'intolleranza, il conformismo morale, il rifiuto del pluralismo e della
differenza. La stagione della caccia alle eresie è quindi aperta e tutte le
armi sono autorizzate.
Così, in modo quasi impercettibile - quale osservatore, per quanto
acuto, avrebbe potuto prevedere l'evoluzione attuale? -, l'intellettuale si
trova in trappola. E, laddove non abbia rinunciato alle sue scelte di
solidarietà e giustizia, il suo dramma si trasforma in tragedia. Poiché scopre
che la sua liminarità non è più quella che assume in tempo normale e che gli
permette di fare onore alla sua funzione, di salvaguardare il suo spirito
critico e l'autonomia del suo pensiero. È dì un'altra natura e dipende
semplicemente dall'esilio interno. La questione quindi non è più quella di
combattere affinché la sua funzione sia riconosciuta di utilità pubblica. È
molto più difficile cercare dì sapere se si ha ancora un posto nella propria
società, proprio quando ci si è ormai rassegnati a non avere più nemmeno quello
che ci avrebbero riservato altrove, sotto altri cieli.
II posto di cui parlo è più etico che fisico. Poiché egli può
trovare un posto comodo nella misura in cui il suo pensiero si mette all'ordine
del giorno e si sottomette al nuovo tracciato delle frontiere che non è dato
superare. In caso contrario, se egli non accetta di rinunciare all' integrità
delle proprie idee e di sottomettersi ai consensi ritenuti ragionevoli per
1'equilibrio della società, l'intellettuale si trova in una situazione inedita,
quella in cui fa parte concretamente di una piccola minoranza privata dei suoi
diritti fondamentali. E ciò costituisce un paradosso ora che si sta
cominciando, bene o male, a riconoscere i diritti di tutte le minoranze -
etniche, culturali, religiose, ecc. Ci troviamo dunque, nel nostro caso, in
presenza della sola minoranza che non può esercitare i suoi diritti ed
esprimere liberamente le proprie convinzioni, quando queste ultime vanno contro
i consensi stabiliti e gli equilibri considerati salutari.
La novità di questa situazione è che lo strangolamento della libertà
non proviene esclusivamente, come nel passato, dalle tirannie al potere. Se
queste ultime hanno dovuto allentare parzialmente la loro presa, hanno tuttavia
passato la staffetta a frange della società e a correnti che, dal suo interno,
si sono improvvisate guardiane della morale, della fede e che hanno ridefinito
a loro immagine i termini dei codici di condotta che devono regolare tutti gli
aspetti della vita civile.
Credo senza alcuna pretesa di aver presagito l'evoluzione che ho
appena descritto. È nel corso della guerra del Golfo che ho preso coscienza - e
l'ho espresso a caldo in molti testi - del fatto che questo avvenimento
inaugurava, insieme al nuovo ordine mondiale, un vero e proprio disordine del
mondo. Ho rilevato, tra l'altro, come conseguenza di questo scuotimento una
catastrofe culturale che avrebbe provocato una vera e propria deriva dei
contingenti umani, sociali, economici e culturali. Questa guerra aveva messo
in scacco la fede
elaborata nel corso dei secoli, in particolare dal Rinascimento e
dall'Illuminismo, nell'unità dello spirito e della condizione umani; la fede
anche nell'idea che il pianeta fosse questa scialuppa dì salvataggio nella
quale eravamo tutti imbarcati e in cui si svolgeva un'avventura umana comune.
Improvvisamente, la guerra svelava un fossato enorme tra le due umanità o,
piuttosto, tra i due pianeti.
Da questo fatto in poi tutte )e riflessioni sullo sviluppo, il
semplice ritardo storico, lo scambio iniquo, diventavano quasi risibili. La
Storia aveva inaugurato un apartheid oggettivo tra il Nord e il Sud, sanzionato
dalle leggi e dalle misure poliziesche.
Così dicendo, non voglio incriminare solo l'Occidente e designarlo
come unico responsabile di questa rottura e dell' irrompere delle tensioni
politiche, sociali e culturali nei paesi del Sud. Credo che ci occorrerà come
minimo una nuova lettura della Storia universale per ritrovare il bandolo di
questa evoluzione e comprendere per filo e per segno la situazione attuale.
II peccato originale è una tesi semplicistica, soprattutto quando
uno dei protagonisti se ne lava le mani. Ho sempre detto, a proposito del mondo
arabo ad esempio, che non ne uscirà fintanto che resterà malato dell'Occidente,
che si intirizzirà nel suo stato di vittima e che non si sbarazzerà della tesi
dell'eterno complotto che avrebbe costantemente minato i suoi tentativi di
liberazione e sviluppo, poiché penso che la coscienza liberatrice sia
innanzitutto una coscienza che attacca le cause interne della miseria e della
paralisi morali e intellettuali. La critica non ha legittimità e pertinenza se
non nella misura in cui sia globale e proceda dall'interno verso l'esterno. Se
la critica dell'altro è un diritto, questo diritto è tanto più fondato quanto
più poggia innanzitutto su un'autocritica.
Questa intransigenza non deve, sia bene inteso, essere vista come
una cortesia nei riguardi dell'Occidente. Ho avuto occasione di denunciare la
miseria sia morale che intellettuale di un certo Occidente il cui errore
principale, a mio avviso, è stato quello di aver rinunciato agli elementi più
importanti del suo contributo all'avventura del pensiero umano: l'invisibilità
del diritto, l'universalità della giustizia, la stessa preoccupazione per tutte
le condizioni umane. Questa componente dell'Occidente ha conosciuto un'altra
forma di restringimento del pensiero e ha perduto di vista la posta in gioco
primordiale di tutti i pensieri: la percezione della condizione umana e del
mondo nella loro unità. Insisto sull'aspetto di regressione intellettuale,
facendovi grazia della barbarie rilevata nel corso di quest'altra sporca
guerra.
Questo quadro apocalittico che ho messo progressivamente sotto ai
vostri occhi è quello che scruto senza posa da alcuni anni. L'angoscia che mi
ispira trascende l'individuo. Dopo tutto ho ancora la forza di pennellarlo
senza perdere la ragione, in particolare quella che mi ricollega alla
scrittura, cioè a questa ricerca perpetua del senso e della luce. La
disperazione rivela talvolta energie insospettate. Se l'istinto di vita su
scala individuale può vacillare, ve ne è un altro che ci ricorda che una vita,
dopo tutto, fa parte della Vita, quella di tutti gli altri, e, avendo riguardo
per quest'ultima, non è possibile incrociare le braccia poiché è la sola cosa
sacra in cui possiamo ancora credere. Sacra, perché si situa al di là del bene
e del male. Perché ci ha rivelato un giorno carezze e parole d'amore, lo
scombussolamento dell'essere e la meraviglia. E allora ci si è detti: «Questo è
troppo prezioso». È un dono che l'uomo fa a se stesso e che deve essere un bene
pubblico, un diritto, poiché siamo stati gettati qui senza che ci fosse chiesto
il nostro parere o la nostra autorizzazione.
Ecco dunque la musichetta della speranza che si fa sentire, come
se venisse dalle macerie del nostro panorama devastato.
Mi guardo intorno, in uno di quei paesi del Sud trascinati alla
deriva, e mi pongo questi nuovi interrogativi, ancora più brucianti di quelli
dei bilanci precedenti. Che mi rimane da dire? Da solo non puoi cambiare il
mondo, deviare il corso della deriva. D'altronde non te lo chiede nessuno. Ti
hanno emarginato e ti sei emarginato. Così vanno le cose. Ma tu non puoi fare
altro che testimoniare, tenere aperto quell'occhio del cuore che non può,
questo, ingannarti. Il mondo crolla: ebbene, non è la prima volta e non sarà
l'ultima. Altri prima di me l'hanno visto e non si sono uccisi. Le loro voci si
sono levate per chiamare i soccorsi, anche se ci dovesse volere un secolo e
diverse generazioni. Fa dunque che la tua voce si levi per dare il cambio a quella
dei tuoi predecessori e perché un giorno a venire altre voci fustiganti
l'orrore e il sonno della. coscienza si ricolleghino alla tua affinché 1'umile
messaggio sì perpetui.
La scrittura è il tuo unico bene, quello che non hai mai comprato
e che nessuno ha potuto acquistare. E soprattutto non credere di esserne il
proprietario. Questo bene è tuo fintanto che lo distribuisci ogni giorno, ogni
notte, soprattutto quando ti trovi in pericolo. Ricordati di quei gesti che hai
conosciuto nel tuo ambiente tradizionale della città di Fès. Quando nella tua
famiglia c'era un lutto o quando si attraversava semplicemente una crisi, tuo
padre faceva preparare una grande quantità di pane che andava poi a distribuire
ai poveri, ai quattro lati della città.
La tua scrittura non ti ricorda questo gesto semplice e senza
ostentazione? Scrivi dunque fintanto che avrai la forza di questo gesto. Ciò
che uscirà dalle tue dita non nutrirà gli affamati, né renderà la vita a un
bambino ingannato da una bomba che ha accarezzato come fosse un giocattolo e
soprattutto non convertirà alla virtù i predatori di questo mondo. La tua
scrittura non rinsalderà il pianeta, non ridurrà le ingiustizie, non impedirà
le guerre, le purificazioni etniche, morali e culturali. Ma ciò di cui sei sicuro
è che non sarà mai una menzogna che si aggiunge alle menzogne, un tizzone di
odio che alimenta il braciere degli odi, un ingrediente di intolleranza che
rende piccanti i piatti freddi delle intolleranze, un'azione da speculatore
versata alla Borsa delle corruzioni.
Se scrivi è per rispetto verso il patto d'onore che hai firmato
con te stesso fin dal tuo risveglio alla coscienza. II più grande scacco
sarebbe perdere un giorno la faccia, la tua faccia umana. E infine, vecchio
mio, perché ti poni queste domande, perché ti torturi a redigere tutti questi
bilanci? La scrittura è per te come una preghiera rivolta alla vita affinché
continui a visitarti. Se scrivi è dunque perché sei ancora vivo. Chi te lo può
rimproverare?