ASSIA DJEBAR
Scrivere senza alcuna eredità
La prima parte della mia relazione è una rilettura di un testo sul
romanzo che mi permette di definire il mio percorso culturale, mentre la
seconda tratterà più da vicino il tema delle «voci del Mediterraneo», in
particolare la parola e la memoria delle donne del Maghreb.
***
Figlie, non ereditiere. O piuttosto, aggirando la legge islamica:
diseredate. Non «osate» reclamare il dovuto - per decenza, per amore per così
dire del silenzio, per...
Ogni padre, da noi, disereda le sue figlie o, più precisamente,
dona loro qualcosa, ma permette ai figli o ai fratelli di prendersi tutto,
anche se ha un buon cuore e non ha il gusto dell'oppressione o dell'iniquità.
Tace affinché lei, la figlia, taccia a sua volta.
Su questi silenzi si potrebbero scrivere degli interi romanzi. Su
queste catene di rinunce si dovrebbero interpretare delle scene teatrali, ma,
come è noto, l'Islam non prevede il teatro. O piuttosto, non ce n'è che uno: la
liturgia del sangue di Hussein, del suo martirio.
Chi è Hussein oggi in terra algerina e chi è Yazid, il suo
carnefice?
Sicuramente, si potrebbe dire che 1'assassinio del nipote del
profeta era già scritto da quando era bambino, nello stesso istante in cui sua
madre, Fatima ben Mohamed, parlò forte. Protestò. Disse no. Perché non
sopportava di essere diseredata alla morte del padre. Essere brutalmente
esclusa dal giardino del padre.
Proclamò il suo rifiuto, improvvisò la rivolta, mise in versi il
suo sdegno verso la codardia dei suoi compagni: nei sei mesi in cui disse no
impose questo no al suo sposo, ai suoi cugini e a tutte le «persone della
famiglia».... e alla fine ne morì.
Per non averlo scritto?
Suo figlio, circa cinquant'anni più tardi, si intestardì a
proposito dell'eredità e prese a incamminarsi per Kerbéla. Giunto alla meta,
venne lacerato, trafitto, sminuzzato. Gli assassini si accanirono su di lui in
quanto erede di una donna. Un'eredità che non poteva essere ricevuta e di cui
si sarebbe dovuta tacere la perdita...
Improvvisamente mi dico in una pura fantasia: è per questo che il
«tchador» nero sui capelli delle donne dell'Iran sciita e febbricitante assume
un tale valore simbolico: affinché le ragazze e le signore anziane dimentichino
la tentazione di Fatima, affinché tacciano, loro, la perdita dell'eredità,
nonché celebrino a modo loro il proprio spossessamento.
Figlie non ereditiere; ex-ereditiere.
In piena Algeria «socialista», i1 codice della famiglia (1984)
rende legale l'esclusione delle donne. Si pone allora una scelta tra il sentirsi
vittime o rivendicatrici, protestatarie - emule di Fatima, con il prezzo che ha
dovuto pagare: con la sua morte precoce, poi con l'assassinio del figlio che,
divenuto uomo, domandava l'eredità. Che errore!
La diseredazione ha questo di particolare, che vi cade addosso al
primo tradimento degli uomini, soprattutto quello del padre, poiché è l'unico
che dona per amore; gli altri, lo sposo o i figli, donano, talvolta, ma sempre
in cambio di... Vi ritrovate dunque diseredate e per decenza, per pudore, per
«heuchma», vale a dire per vergogna - strano il pudore, questo gusto del
segreto che diventa colpevolezza coatta -, lasciate perpetrare l'ingiustizia su
di voi.
In seguito, ma non potevate prevederlo, è la vostra spoliazione
che trasmettete. Ovviamente alle vostre figlie - un lamento delle donne di
Gardaia dice: «farò una finestra tra me e mia figlia». Ma anche ai vostri
figli. Voi a cui la legge coranica permetteva di cedere loro ciò che vi aveva
donato vostro padre - con un gioco triangolare che, dopo tutto, bonificava la
trasmissione, aggiungendovi un carico emotivo... -, a causa del vostro primo
silenzio, forse dovuto talvolta a una volontà di ascesi, non avete potuto
prevedere la vostra fine: al momento di abbandonare la vostra vita, tendete ai
vostri figli le mani vuote.
«Ereditate, dunque, oh occhi della mia anima, la mia non-eredità!»
Coloro ira i vostri figli che sono troppo puri per farsi il sangue amaro
approfitteranno di questo non lascito per farne un punto di partenza per
l'avventura... Ma gli altri, vale a dire la maggioranza - che, in realtà, sono
principalmente figli del vostro sposo - si rivolteranno contro le loro sorelle
per obbligarle... a rinunciare in loro favore alla trasmissione patema... E la
diseredazione della madre produrrà una nuova spoliazione, subita e imposta!
Ecco il solo dialogo ormai possibile tra uomini e donne nel mio
paese che si ripercuote nelle parole e procedure delle corti di giustizia. Per
impotenza, abbozzo a modo mio un quadro di questa grande miseria, fonte di violenza
imbellettata.
E la scrittura in tutto ciò? Qual è la scrittura della
spoliazione? Che possiate, pur continuando a percepire l'afflato
dell'ispirazione, forgiare la vostra collera. Nelle «parole della tribù».
Far vibrare la voce. Quattordici secoli dopo la prima ribelle
dell'Islam, la «Figlia», che possiate seguire umilmente le sue tracce: cercare
nella sua ombra il fuoco della sua eloquenza. Di quella donna che ne fu
bruciata pér prima.
Ma se non si possiede come arma, nella pulsazione del verbo, nella
nidificazione della parola, la parlata antica con l'acrimonia, il martellamento
e il mormorio sordo delle sue arterie, come non ricadere nelle paludi
dell'accettazione? Come evitare il contagio del silenzio?
Certo, il canto antico non serviva alle donne - poetesse,
«rawiyates» o anche pazze, «possedute» -che a ritmare in loro la febbre
impotente, la fierezza ofFesa, a condizione che dimenticassero il corpo, i
capelli, gli occhi, il seno, la statura, l'andatura, il movimento puro... Che
sussistesse la voce senza lo sguardo - voci di donne che se ne vanno o si
seppelliscono.
Che piangono soprattutto.
Ho detto al principio che se fossi stata poetessa seguendo
l'esempio dei più grandi del periodo ante-islamico o post-islamico, non avrei
pianto i miei amici uccisi e martirizzati in terra algerina.
II pianto non si scrive. Graffia il corpo. Lo tortura. Nel
migliore dei casi, diventa vento, tempesta, ma non un flusso di scrittura. La
rabbia, se anche vi serra la gola e annoda la vostra voce, vi fa almeno prendere
le redini delle vostre parole e le conduce velocemente dove saranno scritte.
Non scriverò nessuna deplorazione. La mia scrittura non si è mai fatta carico
di un simile retaggio.
Nei «dechras» laggiù, dove nei lamenti convenzionali si canta
ancora l'amore smielato, la voce fitta si strazia all'infinito celebrando che
separazione.
La mia scrittura non si alimenta della separazione, ma la colma;
non si nutre dell'esilio, ma lo nega. Soprattutto, non vuole né desolazione, né
consolazione. Malgrado la mia mancanza di eredi del canto profondo, la
scrittura invecchia, gratuita. È una scrittura del principio.
Il mio isolamento è tale che percepisco, infine, la fortuna insita
nella mia non-eredità.
Se, per scrivere, siete già state private della lingua materna, se
il linguaggio vernacolare non vi serve che per soffrire, oh che non vi
inoltriate a bordo di una scialuppa nel cuore della festa o nell'esplosione
altera del dolore.
No. Non direte «noi», non vi nasconderete, voi donne singolari,
dietro la «Donna». Non sarete mai, né al principio, né alla fine, «portavoci» -
le vostre parole, d'altronde, non vi portano lontano, non tendono all'orizzonte
delle cantatrici soavi.
No. Voi direte «io» - l'io e il gioco - solo per voi
-, canterete, danzerete ed è proprio quello che volete scrivere, anche in piena
catastrofe, proprio a causa del naufragio,
la vostra gioia luminosa
la vostra scoperta di poter camminare fuori
di non sentire più attacchi.
«Vi avranno espulse prima
Appena avrete affisso le vostre risa, anziché la malinconia,
Appena avrete fissato in vocaboli lo scoppio della sfida
Vi avranno delapidato
Prima ancora di sbrigliare l'orda
vi avranno cacciate»!
No, ribatterò scrupolosamente in questo dialogo interiore che mi
abita, no. Ho fiutato uno strano odore nell'aria marcescente di un'Algeri dei
primi anni Ottanta. Quella di una noia epidemica, di un deserto laggiù, in
alto, contro il blu di un cielo empireo, fluttuante al di sopra delle strade
sovrappopolate di uomini che si comprimono tra loro, compressi, compassati e
senza più una donna che le percorre...
Ecco dieci anni o più. La mia scrittura palpita inizialmente al
ritmo del passo esterno, nella ricerca dei visi, delle nuvole, delle sfumature.
Poi, mi sono espulsa da sola.
Non a colpi di pietre; senza ostracismo manifesto; nel rifiuto di
un quotidiano che si pretende «popolare», il quale mi avrebbe limitato e
macchiato perfino dal di fuori, perfino «nuda», cioè senza veli... Vale a dire
senza il velo della felice illusione, del desiderio dì finzione viva, di mobilità
incessante: insomma, del romanzo.
È, ormai, un'eco nel sangue che zampilla laggiù
un programma al femminile che dobbiamo scrivere,
che dobbiamo vivere,
scrivere per vivere,
e che, nell'astenia della mia lingua di latte e
di retaggio, dalla lingua francese, non trasmessa da
alcuna genealogia, è invece seminato
in quale solitudine
dell'altrove
di un'altra terra altrove,
in cui fare il vuoto,
o far scorrere il silenzio
e suturare la rottura?
Non scriverò che nella vita, compreso il vuoto della vita, nella
fuga solitaria che, al suo ultimo termine, per non rabbrividire, si trasforma
in solidale.
Scrittura di diseredata, per dire ancora il sole.
Questo è il mio primo intervento per definire la situazione in cui
mi trovo in rapporto alla scrittura del romanzo.
Terminerò con una breve conclusione appositamente concepita per
questa conferenza. A mio avviso, la scrittura delle donne del Maghreb è sempre
una nascita, un inizio, come ho appena detto. Spesso è anche una fuga e
comunque una sfida. Forse, nella sua parte più fertile, è anche una memoria
salvata che brucia e che ci sospinge avanti.
Quindi, come tutte le letterature del Terzo Mondo, discende dalla
parola orale. Ed è nella ricerca di questa fonte oscura che siamo tentati dalla
parola scritta ad abbeverarci al fiume sotterraneo della memoria, troppo spesso
occultato dai cosiddetti analfabeti. È da qui che scaturisce la cultura in
divenire. A maggior ragione, se si tratta di donne la cui eloquenza, al pari
del corpo, non è riconosciuta che raramente.
Scrivere, per tutte le donne che sono qui, non può non ricondurci
a questa doppia proibizione, allo stesso tempo dello sguardo e del sapere.
Scrivere, per la maggior parte delle mie sorelle, sarebbe inevitabilmente
scontrarsi con questo muro del silenzio, con questa invisibilità. Scrivere
diverrebbe allo stesso tempo, a causa di questa urgenza, scrivere per, cioè un
impegno del verbo, una scrittura appassionata e combattiva. Ma, secondo me, ne
siamo ancora molto lontani.
Vorrei quindi terminare evocando una donna del Mediterraneo, una
donna di grandissima importanza che leggo e rileggo spesso: una delle rare
donne della filosofia contemporanea. Sto parlando dell'andalusa Maria Zambrano
che fu rifugiata politica nel '36, esiliata oltre Atlantico, per le sue opere
sia politiche che filosofiche, e poi in Svizzera, prima di ritornare e morire a
Madrid.
Di questa donna che ha conosciuto tante battaglie e che ha saputo
evocare così bene Antigone agli inferi, vorrei citarvi la seguente frase: «la
vita continua ciecamente a dare degli esseri che chiedono di vedere, di cui
alcuni riescono a crearsi le proprie luci senza bruciarvisi, né bruciare».
Concludo con Maria Zambrano: le donne del Maghreb che scrivono chiedono di
vedere e tutta la letteratura non può, secondo me, che iscriversi in questa
ricerca delle proprie luci, «senza bruciarvisi, né bruciare».
Nella mia società attualmente cieca, alla ricerca disperata di
specchi e nella sua attuale corsa al suicidio, questa ricerca sarebbe veramente
una grazia insperata.
Vi ringrazio.