ASSIA DJEBAR

 

Scrivere senza alcuna eredità

 

La prima parte della mia relazione è una rilettura di un testo sul romanzo che mi permette di definire il mio percorso culturale, mentre la seconda tratterà più da vicino il tema delle «voci del Mediterraneo», in particolare la parola e la memoria delle donne del Maghreb.

 

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Figlie, non ereditiere. O piuttosto, aggirando la legge islamica: diseredate. Non «osate» reclamare il dovuto - per decenza, per amore per così dire del silenzio, per...

Ogni padre, da noi, disereda le sue figlie o, più precisamente, dona loro qualcosa, ma permette ai figli o ai fratelli di prendersi tutto, anche se ha un buon cuore e non ha il gusto dell'oppressione o dell'iniquità. Tace affinché lei, la figlia, taccia a sua volta.

Su questi silenzi si potrebbero scrivere degli interi romanzi. Su queste catene di rinunce si dovrebbero interpretare delle scene teatrali, ma, come è noto, l'Islam non prevede il teatro. O piuttosto, non ce n'è che uno: la liturgia del sangue di Hussein, del suo martirio.

Chi è Hussein oggi in terra algerina e chi è Yazid, il suo carnefice?

Sicuramente, si potrebbe dire che 1'assassinio del nipote del profeta era già scritto da quando era bambino, nello stesso istante in cui sua madre, Fatima ben Mohamed, parlò forte. Protestò. Disse no. Perché non sopportava di essere diseredata alla morte del padre. Essere brutalmente esclusa dal giardino del padre.

Proclamò il suo rifiuto, improvvisò la rivolta, mise in versi il suo sdegno verso la codardia dei suoi compagni: nei sei mesi in cui disse no impose questo no al suo sposo, ai suoi cugini e a tutte le «persone della famiglia».... e alla fine ne morì.

Per non averlo scritto?

Suo figlio, circa cinquant'anni più tardi, si intestardì a proposito dell'eredità e prese a incamminarsi per Kerbéla. Giunto alla meta, venne lacerato, trafitto, sminuzzato. Gli assassini si accanirono su di lui in quanto erede di una donna. Un'eredità che non poteva essere ricevuta e di cui si sarebbe dovuta tacere la perdita...

Improvvisamente mi dico in una pura fantasia: è per questo che il «tchador» nero sui capelli delle donne dell'Iran sciita e febbricitante assume un tale valore simbolico: affinché le ragazze e le signore anziane dimentichino la tentazione di Fatima, affinché tacciano, loro, la perdita dell'eredità, nonché celebrino a modo loro il proprio spossessamento.

Figlie non ereditiere; ex-ereditiere.

In piena Algeria «socialista», i1 codice della famiglia (1984) rende legale l'esclusione delle donne. Si pone allora una scelta tra il sentirsi vittime o rivendicatrici, protestatarie - emule di Fatima, con il prezzo che ha dovuto pagare: con la sua morte precoce, poi con l'assassinio del figlio che, divenuto uomo, domandava l'eredità. Che errore!

La diseredazione ha questo di particolare, che vi cade addosso al primo tradimento degli uomini, soprattutto quello del padre, poiché è l'unico che dona per amore; gli altri, lo sposo o i figli, donano, talvolta, ma sempre in cambio di... Vi ritrovate dunque diseredate e per decenza, per pudore, per «heuchma», vale a dire per vergogna - strano il pudore, questo gusto del segreto che diventa colpevolezza coatta -, lasciate perpetrare l'ingiustizia su di voi.

In seguito, ma non potevate prevederlo, è la vostra spoliazione che trasmettete. Ovviamente alle vostre figlie - un lamento delle donne di Gardaia dice: «farò una finestra tra me e mia figlia». Ma anche ai vostri figli. Voi a cui la legge coranica permetteva di cedere loro ciò che vi aveva donato vostro padre - con un gioco triangolare che, dopo tutto, bonificava la trasmissione, aggiungendovi un carico emotivo... -, a causa del vostro primo silenzio, forse dovuto talvolta a una volontà di ascesi, non avete potuto prevedere la vostra fine: al momento di abbandonare la vostra vita, tendete ai vostri figli le mani vuote.

«Ereditate, dunque, oh occhi della mia anima, la mia non-eredità!» Coloro ira i vostri figli che sono troppo puri per farsi il sangue amaro approfitteranno di questo non lascito per farne un punto di partenza per l'avventura... Ma gli altri, vale a dire la maggioranza - che, in realtà, sono principalmente figli del vostro sposo - si rivolteranno contro le loro sorelle per obbligarle... a rinunciare in loro favore alla trasmissione patema... E la diseredazione della madre produrrà una nuova spoliazione, subita e imposta!

Ecco il solo dialogo ormai possibile tra uomini e donne nel mio paese che si ripercuote nelle parole e procedure delle corti di giustizia. Per impotenza, abbozzo a modo mio un quadro di questa grande miseria, fonte di violenza imbellettata.

E la scrittura in tutto ciò? Qual è la scrittura della spoliazione? Che possiate, pur continuando a percepire l'afflato dell'ispirazione, forgiare la vostra collera. Nelle «parole della tribù».

Far vibrare la voce. Quattordici secoli dopo la prima ribelle dell'Islam, la «Figlia», che possiate seguire umilmente le sue tracce: cercare nella sua ombra il fuoco della sua eloquenza. Di quella donna che ne fu bruciata pér prima.

Ma se non si possiede come arma, nella pulsazione del verbo, nella nidificazione della parola, la parlata antica con l'acrimonia, il martellamento e il mormorio sordo delle sue arterie, come non ricadere nelle paludi dell'accettazione? Come evitare il contagio del silenzio?

Certo, il canto antico non serviva alle donne - poetesse, «rawiyates» o anche pazze, «possedute» -che a ritmare in loro la febbre impotente, la fierezza ofFesa, a condizione che dimenticassero il corpo, i capelli, gli occhi, il seno, la statura, l'andatura, il movimento puro... Che sussistesse la voce senza lo sguardo - voci di donne che se ne vanno o si seppelliscono.

Che piangono soprattutto.

Ho detto al principio che se fossi stata poetessa seguendo l'esempio dei più grandi del periodo ante-islamico o post-islamico, non avrei pianto i miei amici uccisi e martirizzati in terra algerina.

II pianto non si scrive. Graffia il corpo. Lo tortura. Nel migliore dei casi, diventa vento, tempesta, ma non un flusso di scrittura. La rabbia, se anche vi serra la gola e annoda la vostra voce, vi fa almeno prendere le redini delle vostre parole e le conduce velocemente dove saranno scritte. Non scriverò nessuna deplorazione. La mia scrittura non si è mai fatta carico di un simile retaggio.

Nei «dechras» laggiù, dove nei lamenti convenzionali si canta ancora l'amore smielato, la voce fitta si strazia all'infinito celebrando che separazione.

La mia scrittura non si alimenta della separazione, ma la colma; non si nutre dell'esilio, ma lo nega. Soprattutto, non vuole né desolazione, né consolazione. Malgrado la mia mancanza di eredi del canto profondo, la scrittura invecchia, gratuita. È una scrittura del principio.

Il mio isolamento è tale che percepisco, infine, la fortuna insita nella mia non-eredità.

Se, per scrivere, siete già state private della lingua materna, se il linguaggio vernacolare non vi serve che per soffrire, oh che non vi inoltriate a bordo di una scialuppa nel cuore della festa o nell'esplosione altera del dolore.

No. Non direte «noi», non vi nasconderete, voi donne singolari, dietro la «Donna». Non sarete mai, né al principio, né alla fine, «portavoci» - le vostre parole, d'altronde, non vi portano lontano, non tendono all'orizzonte delle cantatrici soavi.

No. Voi direte «io» - l'io e il gioco - solo per voi -, canterete, danzerete ed è proprio quello che volete scrivere, anche in piena catastrofe, proprio a causa del naufragio,

 

la vostra gioia luminosa

la vostra scoperta di poter camminare fuori

di non sentire più attacchi.

«Vi avranno espulse prima

Appena avrete affisso le vostre risa, anziché la malinconia,

Appena avrete fissato in vocaboli lo scoppio della sfida

Vi avranno delapidato

Prima ancora di sbrigliare l'orda

vi avranno cacciate»!

 

No, ribatterò scrupolosamente in questo dialogo interiore che mi abita, no. Ho fiutato uno strano odore nell'aria marcescente di un'Algeri dei primi anni Ottanta. Quella di una noia epidemica, di un deserto laggiù, in alto, contro il blu di un cielo empireo, fluttuante al di sopra delle strade sovrappopolate di uomini che si comprimono tra loro, compressi, compassati e senza più una donna che le percorre...

Ecco dieci anni o più. La mia scrittura palpita inizialmente al ritmo del passo esterno, nella ricerca dei visi, delle nuvole, delle sfumature. Poi, mi sono espulsa da sola.

Non a colpi di pietre; senza ostracismo manifesto; nel rifiuto di un quotidiano che si pretende «popolare», il quale mi avrebbe limitato e macchiato perfino dal di fuori, perfino «nuda», cioè senza veli... Vale a dire senza il velo della felice illusione, del desiderio dì finzione viva, di mobilità incessante: insomma, del romanzo.

 

È, ormai, un'eco nel sangue che zampilla laggiù

un programma al femminile che dobbiamo scrivere,

che dobbiamo vivere,

scrivere per vivere,

e che, nell'astenia della mia lingua di latte e

di retaggio, dalla lingua francese, non trasmessa da

alcuna genealogia, è invece seminato

in quale solitudine

dell'altrove

di un'altra terra altrove,

in cui fare il vuoto,

o far scorrere il silenzio

e suturare la rottura?

 

Non scriverò che nella vita, compreso il vuoto della vita, nella fuga solitaria che, al suo ultimo termine, per non rabbrividire, si trasforma in solidale.

Scrittura di diseredata, per dire ancora il sole.

 

Questo è il mio primo intervento per definire la situazione in cui mi trovo in rapporto alla scrittura del romanzo.

Terminerò con una breve conclusione appositamente concepita per questa conferenza. A mio avviso, la scrittura delle donne del Maghreb è sempre una nascita, un inizio, come ho appena detto. Spesso è anche una fuga e comunque una sfida. Forse, nella sua parte più fertile, è anche una memoria salvata che brucia e che ci sospinge avanti.

Quindi, come tutte le letterature del Terzo Mondo, discende dalla parola orale. Ed è nella ricerca di questa fonte oscura che siamo tentati dalla parola scritta ad abbeverarci al fiume sotterraneo della memoria, troppo spesso occultato dai cosiddetti analfabeti. È da qui che scaturisce la cultura in divenire. A maggior ragione, se si tratta di donne la cui eloquenza, al pari del corpo, non è riconosciuta che raramente.

Scrivere, per tutte le donne che sono qui, non può non ricondurci a questa doppia proibizione, allo stesso tempo dello sguardo e del sapere. Scrivere, per la maggior parte delle mie sorelle, sarebbe inevitabilmente scontrarsi con questo muro del silenzio, con questa invisibilità. Scrivere diverrebbe allo stesso tempo, a causa di questa urgenza, scrivere per, cioè un impegno del verbo, una scrittura appassionata e combattiva. Ma, secondo me, ne siamo ancora molto lontani.

Vorrei quindi terminare evocando una donna del Mediterraneo, una donna di grandissima importanza che leggo e rileggo spesso: una delle rare donne della filosofia contemporanea. Sto parlando dell'andalusa Maria Zambrano che fu rifugiata politica nel '36, esiliata oltre Atlantico, per le sue opere sia politiche che filosofiche, e poi in Svizzera, prima di ritornare e morire a Madrid.

Di questa donna che ha conosciuto tante battaglie e che ha saputo evocare così bene Antigone agli inferi, vorrei citarvi la seguente frase: «la vita continua ciecamente a dare degli esseri che chiedono di vedere, di cui alcuni riescono a crearsi le proprie luci senza bruciarvisi, né bruciare». Concludo con Maria Zambrano: le donne del Maghreb che scrivono chiedono di vedere e tutta la letteratura non può, secondo me, che iscriversi in questa ricerca delle proprie luci, «senza bruciarvisi, né bruciare».

Nella mia società attualmente cieca, alla ricerca disperata di specchi e nella sua attuale corsa al suicidio, questa ricerca sarebbe veramente una grazia insperata.

Vi ringrazio.