TAHAR BEN JELLOUN

 

Mediterraneo: il mare malato

 

Poco fa il mio amico Michele Capasso, che presiede la «Fondazione Laboratorio Mediterraneo» - un'impresa un po' folle, come del resto lo è lui stesso che l'ha fondata, ma che sta diventando una importante realtà -, mi ha chiesto una definizione del Mediterraneo e ho quindi preparato qualche riga che leggerò rapidamente per poi procedere con la relazione.

«II Mediterraneo è un mare abusivo, sia che con mare si intenda mare o oceano. II mare è una madre abusiva che amiamo nonostante tutto. II Mediterraneo è una passione amara che scorre grazie all'olio d'oliva, al colore del cielo e della verdura e che ci inebria con queste necessità primarie. II Mediterraneo è un modo di respirare, di ridere, di gioire, di piangere.

Tutto è eccessivo: le lacrime come il riso, l'amore come l'odio. Infine il Mediterraneo è un rifugio in cui amiamo ripararci, soprattutto quando il sangue fratricida cola a fiotti».

Oggi in molti congressi si parla tanto di Mediterraneo, ma questo è per certi versi un fatto preoccupante: da una parte vediamo che la parola Mediterraneo con le sue sfumature di passione e di impegno ha qualche cosa di magico; ma dall'altra se ci si preoccupa molto per il Mediterraneo è perché è malato: malato soprattutto della sua storia, delle sue complessità, delle sue differenze, delle sue passioni mal digerite. Questo lago di pace è, in realtà, un'ironia, perché è stato anche un lago di sangue: si ha 1'impressione che quando la guerra civile è finita in Spagna sia iniziata in Grecia, quindi in Libano, poi in Algeria.

In questo secolo il Mediterraneo è diventato un vero e proprio cimitero di tutti i valori per i quali combattono i popoli.

Quando, tuttavia, si parla di Mediterraneo non bisogna dimenticare che ne esistono due c questo è stato sottolineato varie volte nella conferenza di stamattina: c'è il Mediterraneo del Nord, il Mediterraneo sviluppato, non sufficientemente popolato e con una popolazione che invecchia e c'è il Mediterraneo del Sud che ha esattamente i problemi contrari: non è sviluppato a sufficienza ma è sovrappopolato e con un'eccedenza di giovani. Questi due mediterranei non comunicano affatto e talvolta si fanno la guerra.

Questo è stato detto e ripetuto talmente tante volte che una riunione in più non farà certo male, ma bisogna essere abbastanza lucidi sull'efficacia dei nostri incontri, i quali hanno soprattutto un contenuto umano - la possibilità di vedersi, di parlarsi -, ma non ritengo che sconvolgeremo la comunità economica europea. Non penso che domani verranno prese decisioni radicali per modificare la politica economica del Nord verso il Sud e non saremo ascoltati nemmeno quando suoneremo l'allarme per quanto riguarda le migrazioni che avverranno comunque, malgrado le frontiere, malgrado i visti, malgrado la polizia e la polizia di frontiera.

La fine di questo secolo sarà sicuramente contrassegnata da questi grandi movimenti di uomini che verranno espulsi dalla loro casa per la povertà e che andranno dall'altra parte del Mediterraneo, verso il Nord. L'Italia ha avuto un assaggio di questo spostamento con la semi-invasione albanese che è stata respinta come sapete manu militari, provocando una specie di isteria collettiva sia da un lato che dall'altro: è stato qualcosa di abbastanza tragico e ha lasciato intravedere in parte quello che avverrà verso la fine del millennio.

Fino ad oggi l'immigrazione è stata parte del paesaggio umano occidentale, ma ora abbiamo un fenomeno del tutto nuovo: ci sono sempre più giovani che sbarcano in questi paesi senza documenti, senza passaporto, senza niente e che invadono le strade con qualsiasi tipo dì lavoro, compresi quelli illegali. La stampa parla di «clandestini», di «popolazione indesiderabile» che è sgradevole per tutti, soprattutto per gli immigrati legali, che temono che si faccia di tutta l'erba un fascio: maghrebini, assassini, ladri, spacciatori e così via... Del resto, è anche vero che ciò rafforza l'immagine negativa che si ha da tempo e fa sì che nella situazione complessa in cui ci troviamo non vi sia una soluzione visibile all'orizzonte.

Dal momento che stiamo parlando però di «voci mediterranee» e di letteratura dobbiamo dire che quest'ultima non può fare granché contro questa situazione: il suo ruolo è quello di partecipare all'immaginario universale, di apportar un certo numero di elementi per sensibilizzare, per riflettere, per stare insieme, ma la letteratura ha i suoi limiti e non cambierà la società e ancor meno la società degli altri. Parlando da mediterraneo maghrebino, credo che potremmo, quantomeno, cercare di uscire da questo triangolo universale in cui ci siamo impantanati da decenni: religione, lingua e identità. Si può cominciare da uno qualunque di questi vertici e otteniamo comunque violenza, sangue e guerra. Se oggi non vogliamo più essere definiti attraverso la religione, siamo comunque attaccati da coloro che danno il primato alla religione e in particolare all'Islam; se rivendichiamo la nostra identità ancestrale che non tiene conto dell'apporto della religione, siamo considerati sciovinisti e nazionalisti; infine, se usiamo soltanto la definizione linguistica, allora sacrifichiamo gran parte della popolazione perché nel Maghreb ci sono almeno quattro lingue: il berbero - che comprende altre lingue al suo interno -, l'arabo, il francese e lo spagnolo.

Ci viene spesso chiesto in che lingua scriviamo e perché in una anziché in un'altra e questo è un problema legato all'identità. Mi permetto di illustrare questo problema parlando di un piccolo racconto che ho pubblicato, che si intitola «Les raisins de la Galère» in francese e «Nadia» in italiano. C'è un personaggio, una ragazza che si chiama Nadia, nata vicino a Parigi da genitori algerini, che decide di essere una francese moderna, una francese al cento per cento, e vuole anche presentarsi alle elezioni legislative e comunali europee e così via, e quindi in qualche modo non si sente legata alle sue radici. La sua presa di coscienza comincia in occasione di un'aggressione simbolica: suo padre aveva risparmiato per costruire una casa araba, cioè bianca, con molte terrazze e finestre, ecc., ma su ordine del comune comunista la casa viene distrutta, in quanto rappresenta un affronto alla popolazione francese vera e propria.

A questo punto Nadia capisce che è necessario battersi e soprattutto non rinunciare alle proprie origini, sia pure non in modo fanatico e sciovinista, ma ricordando che 1'identità si costruisce su vari apporti. Questa ragazza è una donna che si batte tutti i giorni, su tutti i fronti, per cercare di far trionfare una nuova identità laica. Ci tengo a sottolineare questo aspetto, perché in Marocco non si può discutere pubblicamente a proposito della laicità e parlarne è già un modo di provocare 1'establishment; di conseguenza questo personaggio affamato di laicità è abbastanza positivo.

A proposito di Nadia, volevo ricordare un nuovo fenomeno: la lotta delle donne nel Maghreb che è esemplare soprattutto perché sono le donne che si mettono al primo posto. Vorrei anche rendere omaggio all'Associazione democratica delle donne marocchine che ha ottenuto il primo processo per molestie sessuali in Marocco, cosa che ha avuto una notevole eco nel paese perché è la prima volta che un caposquadra è stato accusato di molestia sessuale in uno stabilimento industriale. La lotta delle donne maghrebine è infatti decisiva: tutto quello che fa muovere le cose oggi in Marocco lo dobbiamo alle donne maghrebine.

Per concludere, volevo aggiungere qualche parola sulle «Voci dal Mediterraneo» che sono voci un po' rauche, forse perché a volte trovano difficoltà a giungere fino al luogo in cui vorrebbero arrivare. Forse un giorno saremo ascoltati, forse un giorno potremo influire su coloro che decidono, che non sono i poeti, gli scrittori, ma sono quelli che detengono il potere, siano essi civili o militari. Noi non siamo militari, non siamo al potere, per cui le nostre voci devono gridare ancora più forte.