E’ il momento di essere tristi

di Izet Sarajlic

 

Sarajevo, 28 gennaio 1997

 

Carissimi Predrag e Michele, cari amici.

È una grande disgrazia che un poeta debba rivolgersi alla gente con le parole del politico. E la disgrazia è talmente grande da non poter essere più grande.

Nei miei 66 anni – non calcolo i due anni della guerra scorsa passati a Dubrovnik e quei cinque-sei mesi trascorsi in aereo o in viaggio – ho vissuto in Bosnia-Erzegovina. E ora vogliono prendermi anche questo.

Non lo permetto: non soltanto perché desidero trascorrere in Bosnia-Erzegovina anche questa misera parte della vita che resta, ma anche perché in essa voglio morire. Non altrove.

Un tempo, come l’eroe di Andrej Platonov, credevo che per l’uomo la cosa più importante fosse non disturbare l’altro nella sua vita. Adesso la penso un po’ diversamente: è ancora più importante fare tutto il possibile perché nessuno possa disturbare la vita degli altri.

Nell’arte, nella politica, in tutte le sfere della vita mi è chiaro che viviamo in questa fine secolo (e millennio!) in un mondo di persone di second’ordine.

Forse la tragedia bosniaca sarebbe potuta accadere anche al tempo di Sartre, Camus, Picasso, Krleza, Iwaszkiewicz, Nerval, Ehrenburg, Chruscev, Eisenhower, Charles de Gaulle, Willy Brandt, Sandro Pertini, Olof Palme, Nehru, Neruda, Brecht, Heinrich Böll, Alberto Moravia, Arthur Miller, Max Frisch, ma sarebbe stata minore per la dimensione dei crimini.

Le battaglie di Stalingrado e di Normandia, che trainano la storia in avanti, vengono vinte da generali come Zukov o Sir Alexandre. Cosa può aspettarsi il mondo, la Bosnia in un generale come McKenzie, che invece di difendere i bosniaci – che d’altronde era il suo mandato – frequenta le case chiuse cetniche dove gli offrono bambine musulmane per violentarle. Cosa aspettarsi da un Major che, al contrario di Tito che ha saputo dire "No" anche ad un onnipotente Dzugasvili, non è in grado di dire "No" ad un comune bandito da strada di Pale.

E cosa è rimasto dei veri ma stanchi intellettuali, dei veri artisti, dei veri scrittori? Che ne è di loro?

François Tanguy a Parigi ha fatto lo sciopero della fame per giorni interi: non potete immaginare cosa abbia significato per noi nella Dachau di Sarajevo il suo gesto. Tanto per Sarajevo, tanto per la verità su Sarajevo, hanno fatto anche lo spagnolo Juan Goytisolo, la bulgara Blaga Dimitrova e lo svizzero Franz Hohler. Philip David o Stanko Cerovic; non li tratterei come stranieri.

La tragedia sarajevese non ha lasciato indifferente nemmeno Henri Bernard Levy. Più volte in giubbotto antiproiettili è sceso a Sarajevo passando per il monte Igman, mentre Susan Sohntag ha messo in scena, in una Sarajevo in guerra, Beckett, anche se non so perché proprio lui. Naturalmente neanche questo è poco, al contrario, ma io comunque non posso non pensare al modo in cui la pensano gli altri sarajevesi che in questo modo prima di tutto hanno voluto migliorare il proprio rating nel mondo. Sparando sui bambini di Sarajevo ha voluto migliorare il proprio rating, in verità fra i fascisti, anche lo scrittore di second’ordine, di quella che un tempo era la letteratura russa di prim’ordine, Edvard Limonov. Perlomeno Hanke non ha sparato contro di noi ma a se stesso.

Nal suo diario dell’altra guerra, la seconda, Thomas Mann ha annotato le parole dell’articolo di Ludwig Marcuse "Chi osa cambiare": “Per il fatto di non aver commesso alcun crimine sanguinoso come quelli commessi da Hitler, molti sentono di aver la coscienza pulita. Se Thomas Mann una volta nella sua vita avesse mostrato quanto è grande la colpa dell’intellettuale europeo nell’attuale stato delle cose, avrebbe fatto qualcosa di straordinariamente importante”.

Dal momento che la battaglia per Sarajevo e la Bosnia-Erzegovina non è stata ancora vinta, gli onorati intellettuali europei e mondiali hanno ancora il tempo di interrogare la propria coscienza. Se crollasse l’idea della Bosnia nel mondo crollerebbe l’idea di una morale ed in quel mondo non so se varrebbe più la pena vivere...

È il momento di essere triste, come scrisse il mio fratello di vita Josif Brodskij nella sua poesia del ’93, che, insieme ad altre cose, mi ha portato non molto tempo fa una straniera a me cara, con la quale fino a questa guerra aveva vissuto nello stesso paese, perché non perdessi il contatto con un’epoca che vorrebbero rendere loro proprietà privata vari pigmei politici, molti dei quali, come modellatori del futuro ordine mondiale, si aggirano anche a Sarajevo.

Sì. È il momento di essere tristi. Ma oggi forse è una cosa comune, essendosi la gioia ritirata dalle nostre vite. E’ lo stato normale di un normale uomo di fine secolo, e forse lo sarà anche per molto tempo del prossimo.

Non ho provato molto piacere nelle cose che ho letto. In realtà al di fuori di "Finestre fiamminghe", di alcuni testi saggistici di Josif Brodskij (la poesia che ha fatto seguito al magnifico necrologio al maresciallo Zukov avrebbe potuto, dovuto, essere di gran lunga migliore: temo che questa non l’avrebbe accettata nemmeno Ana Achmatova) e di tre-quattro testi piuttosto avvilenti di Christa Wolf – si tratta di pura affettazione letteraria, la quale farà piazza pulita anche di quei pochi lettori che sono riusciti a conservare le generazioni di Heinrich Böll, Bohumil Hrabal, Juri Trifonov, Milan Kundera, Danilo Kis e forse anche di qualche latino-americano, anche se a loro gloria si sono sparse molte più parole di quanto non meritino realmente.

La cattiva politica mondiale, oggi senza un punto di riferimento, senza personalità che siano in grado di trainare l’epoca in avanti, con una vita spirituale di livello criminosamente basso, con spot televisivi che probabilmente vengono prodotti in tale quantità con l’intento di ridurre più gente possibile al livello dei più comuni imbecilli, con il teatro nuovo nel quale la cosa più importante è l’assenza del teatro, con bosniaci e ceceni il cui martirio si guarda (se ancora si guarda) come una volta, quando i fiumi fluivano placidi, si guardavano i serial televisivi – questo è dunque il futuro che da Thomas Mann ai nostri giorni hanno sognato le più grandi menti del secolo.

I medici sembrano resistere ancora, almeno ancora riescono ad amputare bene una gamba.

Gli autisti della metropolitana sono ancora più bravi: due anni fa, durante un’assenza da Sarajevo durata quindici giorni, grazie a loro ho provato il piacere di girare per Monaco.

Gli scrittori - da quando sono usciti di scena quelli a cui hanno passato il testimone della staffetta Cechov e Gorkij, da Stefan Zweig e Sherwood Anderson, da Eugene O’Neill e Karel Capek, Unamuno e Georges Duhaniell – pare che loro stessi siano stati fregati dalla generale decadenza del mondo. Che questo sia un piccolo rimprovero che un prigioniero del lager di Sarajevo fa ai suoi colleghi nel mondo è indubbio: Fratelli, ciò che state facendo forse vi condurrà anche al palazzo reale di Stoccolma, ma ciò che state facendo è un mero sfogo di parole e sulle parole, che ci sono comunque date perché con esse diciamo qualcosa.

A una cena all’Holiday Inn durante la guerra, offerta dagli accademici francesi in onore dei loro colleghi sarajevesi (probabilmente fu la prima volta che gli ospiti organizzarono una cena per i padroni di casa, ma gli ospiti ricevevano regolarmente lo stipendio e tutto ciò che spettava loro, mentre a quel tempo noi avevamo solo i barattoli di ICAR, che non voleva mangiare neanche il mio gatto, e sigarette di foglie di tiglio essiccate), dunque a questa cena, alla quale partecipò anche il generale Maurillon, ad un certo punto io ho provato il bisogno di comunicargli, tramite Hanifa Kapidzic Osmanagic, che lui non è il primo francese di riguardo venuto a Sarajevo, che tanto, tanto tempo prima di lui in questa città, senza vantarsi della propria celebrità, anzi ammutolendo di fronte alle tante meraviglie della città sconosciuta, ha soggiornato anche Gerard Philippe, regalandoci non solo l’annunciata interpretazione del "Cid" di Corneille per la regia di Jean Vidar, ma anche la divina interpretazione della "Libertà" di Eluard. Il generale non sembrava infastidito della mia intrusione: al contrario, si è girato verso di me recitando "Sul muro di ogni casa scrivo il tuo nome, Libertà".

Soltanto che noi in città, in quel momento, non avevamo neanche un muro su cui poter scrivere simili versi.

Non era come il generale belga Brickmann, ma anche il generale Maurillon faceva parte degli ufficiali stranieri migliori, quelli che hanno cercato di fare qualcosa in Bosnia. In ogni caso, non era come quel generale canadese McKenzie che visitava le case chiuse, con le bambine musulmane condotte lì con la forza, dei dintorni di Sarajevo. Se n’è andato anche l’ammiraglio Layton Smith. A Bruxelles gli hanno conferito addirittura un’alta onorificenza per ciò che ha fatto in Bosnia. Il fatto è che noi bosniaci non sappiamo ciò che ha fatto: ha forse fatto rientrare i profughi a Banja, Luka e Stolac? Non lo ha fatto. Allora cosa ha fatto? Era questo il suo principale compito. Convincere Belgrado e Pale di che cosa? Di rivolgersi all’Umanesimo ed al Rinascimento? Ha trovato gli indirizzi giusti.

Sembra tuttavia che i generali stranieri vengano da noi esclusivamente per i loro futuri libri di memorie. Solo che a noi non importa delle loro memorie future, a noi importa la pace, ma non quella di Dayton, una pace sul modello svizzero o belga. Per una pace all’irlandese non mi batterei.

Mi è capitato spesso durante la guerra in Bosnia, in seguito a un mio intervento radiofonico, televisivo oppure su un giornale, di essere chiamato addirittura da persone sconosciute che mi hanno detto che le mie parole le avevano fatto piangere. In verità, io non ho mai afferrato la penna o il microfono per strappare le lacrime, ma in questo momento non ho niente neppure contro questo ruolo. Risvegliare i buoni sentimenti oggi è forse più importante di quanto lo sia mai stato in tutta la storia umana. Non volesse Dio, con tutta la sua gloria, che io fossi Charles Bukowski. Men che meno Brana Crncevic.

Wolfang Borget, Heinrich Böll, Hans Werner Richter, Gunter Grass, Hans Magnus Enzensberger dopo il crollo della Germania hanno fatto di tutto, fornendo elementi per completare l’atto d’accusa contro il nazismo, per restituirle la dignità di patria degli uomini. Mentre Brana Crncevic continua, schiumante di rabbia nazional-sciovinista, a tener discorsi nei quali del criminale Karadzic dice che forse non lo faranno santo, ma che ha un posto assicurato fra i martiri del popolo serbo. Simili discorsi dello scrittore serbo di sicuro non faranno piangere nessuno, e non credo nemmeno che qualcuno, come nel ’92, andrà a farsi ammazzare per il "serbismo" di un istigatore alla guerra che ha il culo al caldo.

Tuttavia non sono qui per dare lezioni a nessuno. Sto semplicemente parlando. Nell’estate del ’94 è capitato che per alcune questioni letterarie sono praticamente dovuto andare a Monaco per quindici giorni. La nostra lingua a Marienplatz, nelle cui vicinanze alloggiavo, era per così dire la lingua madre della più famosa piazza tedesca. Osservavo quelli che fino a ieri erano i miei compatrioti ed ecco cosa ho annotato su un mio quaderno ritrovato recentemente in una borsa "Povera gente, /ma non di Dostoevskij /povera gente /dell’ex Jugoslavia. /Qui stanno a meraviglia, /soprattutto quando riescono a rinnovare il Duldung /di altri sei mesi. /Qui stanno a meraviglia. /Allora perché la sera sono tutti infelici, /tanto infelici /che in un istante /questa vita qua /la cambierebbero /per una qualunque morte là".

Forse anche questa poesia trascritta dal mio quaderno di appunti di Monaco farà piangere qualcuno. Questa volta, lo voglio.

Caro Predrag, caro Michele. Per voi, miei fratelli di vita, una sola parola per quello che avete fatto e che farete per noi bosniaci: grazie.

Izet Sarajlic