Inaugurazione Mostra documentaria e fotografica dedicata a Carlo Bernari

Accademia del Mediterraneo e Maison de la Méditerranée

21 dicembre 2002

 

 

 

Intervento del Professor Nicola Tanda Università degli studi di Sassari

 

Non ho preparato una scaletta, vado un po’ così prendendo pretesto dalle emozioni che questo incontro mi dà e soprattutto da questo evento che avviene in un’Accademia del Mediterraneo e quindi in un discorso dal taglio molto attuale. Io sono combattuto tra due versanti: uno della testimonianza dell’uomo, e l’altra data dagli stimoli che mi vengono  proprio da questo discorso dell’identità, da una rilettura dell’opera di Carlo. Partirò dal momento in cui ho conosciuto Carlo Bernari. Mi sono laureato con Sapegno e con Ungaretti con una tesi su Pratolini e così ho conosciuto tutti gli scrittori del gruppo di Pratolini: Bernari, Dessì, Bassani, Petroni, il gruppo cioè di Niccolò Gallo, direttore della Collana dei Narratori di Mondatori. Io ero giovanissimo, fu Gallo a mettermi in contatto con questi scrittori, tanto che nel 1958 insieme a lui realizzammo un numero della Fiera Letteraria dedicata a Carlo Bernari, e da qui ebbe inizio un’amicizia che è durata tutta una vita, la sua e la mia. E quindi in qualche modo io ho approfondito sempre questi problemi che sono quelli del neorealismo in sostanza, un mio volume proprio Realtà e memoria nella narrativa contemporanea contiene un’introduzione rivolta a distinguere quel momento in cui il neorealismo aveva un approccio di tipo ideologico-politico, da quella che era l’intenzione di questi scrittori. Era il momento dello zdanovismo, in cui contavano soprattutto i significati ideologici, i contenuti dicevano allora, e  di questa etichetta in qualche modo Bernari ricevette uno stimolo e un impatto con il pubblico molto forte. Questa etichetta però divenne un pochino la sua gabbia, la sua prigione, perché non si comprende quel momento e non si può mettere in relazione con Breton, con la Francia, se non si comprende la conoscenza che gli scrittori di quel periodo avevano del linguaggio narrativo contemporaneo di tutto l’Occidente, questo il dato importante, un linguaggio nuovo, che  non era il neorealismo, bensì il linguaggio della narrativa del Novecento, in cui tutti questi erano dei maestri tanto è vero che la critica si trovava sempre in difficoltà tra queste persone che si erano formate in un momento importantissimo. E qui poi i conti con Croce sarebbero difficilissimi da fare, perché Croce può essere preso con grande attenzione per la sua concezione della libertà, e soprattutto per  il suo esempio di scrittore, ma non per ciò che ha fatto quella diffusione del suo verbo, quella specie di dittatura che la critica crociana esercitò sulla letteratura italiana. Mi spiego meglio. Croce non è stato un buon lettore del Novecento, non aveva capito Mallarmé, non ha capito il simbolismo e tutti questi aspetti hanno avuto un peso che è stato continuato poi dalla critica ideal-marxista che è venuta dopo. Nel senso che quella inerzia si è portata avanti, anche dopo quel marxismo, per lungo tempo fino ai primi scossoni che sono venuti poi  intorno al ’68 quando sono intervenuti questi nuovi critici, come dimostra anche l’Antologia della Corti sulla nuova critica. E quindi Bernari con tutto quel gruppo si trovò in grande difficoltà con la stessa critica che li aveva promossi, e questi scrittori hanno sofferto tutti: Carlo, Pratolini, Petroni non ne parliamo, lo stesso Dessì, hanno sofferto moltissimo di questa frenata, nel momento in cui lo zdanovisimo pretendeva ancora di continuare in questa direzione. Questi scrittori e poi gli avvenimenti politici e i fatti di Ungheria portarono ad una crisi di questa generazione che pagò uno scotto molto alto, ed ecco la solitudine di cui parlava Daniela, di cui si parlava oggi, che è una solitudine di tipo politico. Ora, di come è stata vissuta questa solitudine, io ho la testimonianza, perché io ho avuto Bernari a Castelvetrano dove c’è stato l’incontro con i giovani, ma ho avuto Carlo come Professore a contratto a Sassari. Oggi la parola contratto per i miei colleghi universitari evoca certamente un momento non alto per l’Università, nel senso che il contratto è un espediente che noi adoperiamo per pagare poco i prestatori d’opera intellettuale, che sono gli universitari. Ma in quel momento della riforma però, il contratto veniva dato a personalità di chiara fama e di altissimo valore, avevano anche una certa entità dal punto di vista finanziario, e servivano per aggiungere all’Accademia, non per fare Accademia, ma per arricchire l’Accademia di esperienze dirette di operatori del settore. Quindi Carlo era venuto a Sassari, le sue lezioni sono state registrate e in parte pubblicate da un mio allievo: Le lezioni sassaresi di Carlo Bernari, sulla rivista «Intervento» di Nuti. Nelle lezioni Carlo parlò proprio della sua esperienza a Parigi,  raccontando ai giovani allievi quanto fosse stata  ricca e importante in relazione con l’avanguardia europea. Il manifesto dell’U.D.A. mostra chiaramente che i rapporti con l’avanguardia c’erano, rapporti che vengono anche dalla secessione, dal rapporto con gli artisti, pittori, scrittori che avevano uno stesso linguaggio, non era il linguaggio solo letterario, ma il linguaggio artistico, e soprattutto era il discorso sull’uomo che tutta quella generazione faceva. Per questo non è possibile capire Tre operai se non si pensa a Sironi, se non si pensa al discorso che nasce nei primi del Novecento, pensate che nel 1913 viene fatta a Roma la mostra della secessione romana  in cui ci sono Matisse, Van Ghogh, Munch, tutta l’avanguardia e anche i pittori italiani, e c’era un ritratto di Grazia Deledda e anche pittori sardi come Biasi. L’incomprensione di questa secessione, quella chiusura di Croce rispetto a questi aspetti ha pesato negativamente su tutto il discorso del Novecento. Noi non riusciamo a capire Ungaretti, Montale, Svevo, se non pensiamo ai rapporti con la secessione, e non capisco perché questi autori pittori siano passati e stati accettati mentre l’equivalente di questi pittori non sia stato accettato in letteratura, questo è l’elemento curiosissimo e interessante. Perché la storiografia artistica è stata molto più avanzata grazie a Venturi e ad Argan di quanto non sia stata la storiografia letteraria. Se prendiamo il Bernari saggista, ci accorgiamo di quanta ricchezza di riferimenti, di quanta cultura civile rivolta all’uomo rispetto alla conoscenza, ci sia. Da una parte bisogna prendere il saggista e capire quanto sia ricco di riferimenti culturali, anche da autodidatta. Io sono stato insieme a Bernari ad un Convegno sulla Deledda, e mi sono trovato sempre accordo con Carlo su  Alvaro. Ma perché? Perché queste persone appartenevano a quel clima, sia la Deledda che Alvaro appartenevano a quel momento. Alvaro era stato a Berlino negli anni Venti, questi scrittori avevano una preparazione internazionale che noi, studiosi, critici, non abbiamo mai subodorato, se la Deledda ha vinto il Premio Nobel era perché partecipava alla vita culturale internazionale. E Carlo era affascinato da questi che s’impegnavano veramente sul grande ruolo, la grande funzione  che ha la letteratura. La letteratura è sapere sulla vita, e i grandi maestri sono proprio maestri di questo sapere sulla vita, tutto il resto può essere anche storico, ma  l’impegno vero consiste in questa scommessa di capire il senso vero della vita di cui poi trasudano tutti gli scritti. Interviene a questo punto un altro discorso importante,  la Carta europea delle lingue,  dei saperi e delle minoranze. E qui entra il discorso dell’identità, della poesia in napoletano che ha recitato Peppe Lanzetta, di Speranzella, di Vesuvio e pane, discorso profondo del sapere napoletano che non è napoletanità, come il sapere dei sardi o dei siciliani, pensiamo a Camilleri, e al sapere di tutte queste regioni italiane, discorso in cui il Novecento va interamente riletto alla luce di queste filosofie, rimovendo in qualche modo tutto quell’ apparato ideologico che ci ha sempre impedito di leggerlo, sempre cercando di vedere i significati, quello che è progressivo e non progressivo. Ricordiamoci la polemica di Vittorini, amico di Bernari e di Pratolini, loro contemporaneo, che difende l’ufficio dello scrittore,  voi fate il vostro mestiere di politici noi facciamo gli scrittori, e gli scrittori  sono quel sapere sulla vita, che è difficilissima, che non si presta né alle elezioni amministrative né a quelle politiche, perché il sapere sulla vita è qualcosa di più profondo, è quello che i maestri, i classici, devono trasmettere alle generazioni.