Inaugurazione Mostra documentaria e fotografica dedicata a Carlo Bernari

Accademia del Mediterraneo e Maison de la Méditerranée

21 dicembre 2002

 

 

 

Intervento di Vanni Ronsisvalle Scrittore, giornalista                                                                                   

 

 

Vi sono diversi modi per accostarsi ad uno scrittore. Per affinità, predilezioni, per procedimenti di razionali adesioni alla sua visione del mondo, per la sua capacità di starti vicino e tutelare tuoi personali equilibri oppure di scatenare il tuo antagonismo esistenziale.  Questo quando lo scrittore è per te un simulacro di carta. Quando lo scrittore  si fa persona, perde, come dire? la sua aureola di sacralità cartacea  ti rapporti a lui con strumenti ben diversi, persino stravolgenti rispetto a quello che è il canone ufficiale che lo riguarda. E questo attiene alla sfera del privato.

Tutto il disagio, persino l’angoscia di questa dicotomia la vissi tutta il giorno in cui dieci anni addietro dovetti commemorare Carlo Bernari  in maniera quanto mai pubblica attraverso gli strumenti quanto mai algidi  della Rai. Radio televisione italiana.

Dal momento in cui dovetti frettolosamente scrivere la mia nota a ridosso della notizia della sua scomparsa, a quando andai in onda mi si fece fulmineamente presente – come accade nei momenti in qualche modo estremi, definitivi dell’esistenza di ognuno – questa, mi si scusi la contraddizione in termini, doppia singolarità del  punto di vista.

Nel breve spazio concessomi dai tempi stretti di un telegiornale avrei dovuto delineare la figura dello scomparso secondo il dettato professionale che ha un bizzarro concetto del superfluo e dell’essenziale anche in situazioni del genere, lasciandomi peraltro il diritto innegabile di far trasparire l’emotività personale. Dal momento che con la morte di Bernari se ne andavano trentadue anni della mia vita.

Dieci anni dopo, per il gentile invito di Daniela Bernard, tutto questo ritorna in gioco. Mi è accaduto qualcosa di misterioso, qualcosa   che sarebbe piaciuto a Bernari, una specie di segnale dalle ragioni indecifrabili a meno che non si sia meridionali e fantasmatici. E Carlo lo era. Pur sapendo tutto di Bernari , per quello stesso rigore che in qualche modo appresi proprio da lui, prima di buttare giù questi appunti  andai a cercarmi sui libri alcuni dati che non volevo tradire, fuorviato dalla confidenza con Bernari-persona. E proprio ieri sera dalle pagine di uno di quei libri scivolò  il foglio con la nota in cui dieci anni addietro appena trasmessa la notizia della sua  morte facevo – come si dice -  la mia parte  attraverso i media,  raccontando di Carlo Bernari, ne tratteggiavo frettolosamente ad uso del teleradiospettatore italiano medio la figura letteraria

Eccola qua quella prima nota, con tutte le correzioni, i ripensamenti minimi che mi erano consentiti. Quanto alle immagini  io disponevo di un repertorio ricchissimo, il corpus più importante è costituito dal lungo dialogo, ironico e socratico, che con Carlo  imbastimmo davanti al mare di Gaeta in occasione del suo settantesimo compleanno.

Ma è di quel testo che qui vorrei dire. Adottando un procedimento suggerito da Edmund Wilson, il grande critico letterario che ci ha lasciato alcuni dei più bei ritratti d’autore della letteratura del Novecento, ci si può abbandonare all’artificio tutto intellettuale di rimettere in discussione ciò che sedimentando nel tempo ci era parso di lapidaria verità.

Se pemettete vorrei sottoporvi questo reperto  radiotelevisivo.

 

……Con Moravia, Vittorini, Pavese – tutti nati nel primo decennio del secolo – Bernari condivideva  una responsabilità esaltante. Quella di avere fondato la nostra più autentica letteratura fuori dagli esercizi estetizzanti della cosiddetta prosa d’arte  avulsa dalla realtà, evasiva, tardo dannunziana. E soprattutto provinciale. Quella realtà sottaciuta era l’Italia del fascismo. Se Moravia pochi anni prima con gli Indifferenti aveva fatto il ritratto alla borghesia  che ne era stata il brodo di cultura , Bernari con Tre operai apparso nel ’34 non solo anticipava i modi e gli scenari  del neorealismo, come è stato persino troppo restrittivamente sostenuto, ma costituì il primo grande esempio di letteratura ‘proletaria’ in Italia.  Per ritrovare quella temperie, e vorrei dire, quella pietas bisogna rifarsi a Verga, il Veta dei Malavoglia con il quale Bernari non trascurava di ammettere un grosso debito.  Verga era un borghese sedotto dal mondo marinaro e contadino; Bernari nato a Napoli da una famiglia di origine francese visse in prima persona l’angustia di una piccola borghesia urbana, che nella sua crisi si imparentava persino con il disagio sociale di un  lumpen proletariat del sud. Da quel libro il regista Francesco Maselli trasse un film per la televisione che meritava miglior sorte, se non altro per capire alcuni dei mali e degli strazi  del nostro meridione…Bernari era un lavoratore attento, sempre inquieto  e pedante sulla verità – la verità dei fatti, delle persone, della vita; quella ‘verità’, nel cui nome – strillandolo – chiuse la sua vicenda di letterato… il suo grande amico Zavattini. La morte di Bernari chiude veramente un’epoca e noi che ne siamo stati giovani testimoni ed apprendisti non possiamo non commuoverci in margine al deserto di umanità e di passioni che ci circonda… 

 

…”non possiamo non commuoverci in margine al deserto di umanità e di passioni che ci circonda”…Questo raccontavo agli italiani una sera d’ottobre del 1992…Oggi il deserto di umanità e di passioni si è esteso dalla sfera personale (ognuno ha un suo modo di porsi nel grembo di questa o quella solitudine – sociale, artistica, economica -il pauperismo dignitoso, endemico di tanta gente del sud - la solitudine amorosa, persino erotica in mezzo a tanta offerta e banalizzazione dell’erotismo, un modo  che finisce per risultare persino consolatorio ) si è esteso dalla sfera personale a livelli, è il caso di dirlo, globali. Ben presto saranno cosmici. La solitudine delle masse è un concetto che non mi sono inventato io.

A questo punto è giusto che renda conto di quell’altro aspetto    mantenuto  in sottotono nell’ufficialità e che comunque     funzionò come un bizzarro  contrappeso esistenziale per tutto il nostro rapporto.  Il mio privato con Bernari.

50 anni addietro, esattamente a sei giorni da oggi  io sposai non solamente Annamaria Giordano, figlia del pittore Edoardo detto Buchicco, nipote del pittore Nicola Fabbricatore ma anche tutto un ‘circolo’ di persone straordinarie che partecipavano,  a cavallo tra la prima e la seconda metà del secolo, entre-deux-guerres  ed oltre, ad alimentare quel concetto di  ‘napoletanità’  che – risulta persino banale rilevarlo - è una dimensione estetica, una ‘categoria’ in senso antropologico, incline con ragione  a diventare un valore universale  tant’è che si può celebrare – come scriveva l’inglese Norman Douglas (naturalizzato caprese) - anche altrove, fuori dal suo proprio contesto geografico.

Insomma acquisii lacerti di memoria di una Napoli pre e post bellica, in particolare di quella che aveva stabilito un suo  centro geografico  dalle parti di villa Lucia e, appena decampando, nella trattoria ‘da Giovanni’ in via Domenico Morelli – la via intitolata all’artista di cui, al numero 8, il pittore Fabbricatore (nonno di mia moglie) occupava lo studio – la Napoli  dove si sviluppava il sodalizio (a volte tempestoso) tra Paolo Ricci e Giordano, la Napoli di Gino Doria erudito e bonvivant, del matematico Caccioppoli, di Mario Alicata, di Luigi Cosenza e Mario Vittoria, di Italo de Feo e quella  degli emigrati (dai saltuari e sofferti, brevi  ritorni) come il salernitano Alfonso Gatto a Firenze, e appunto   Carlo Bernari a Milano ed a Roma. Tutta gente che aveva vezzeggiato mia moglie bambina, rimasta a vivere  con il padre per via di una separazione… 

Cinquant’anni addietro a Roma io conobbi Bernari (che fu testimone alle nostre nozze) e da quel momento con alternanze per motivi disparati, avvicinamenti e fughe (caratteriali) di cui è responsabile il caso, abbastanza fantasioso quando si mette a governare le vite degli artisti, le nostre vite si appaiarono, intrecciarono. Ci perdemmo di vista, ci ritrovammo. A questo punto potrebbe sembrare ovvio che in tale rapporto si mescolassero anche pulsioni letterarie, suggestioni dettate dal contesto…Ebbene il  rapporto, per quel che può interessare - ma serve per illuminare un dato non indifferente della personalità di Bernari - fu del tutto virtuoso, distaccato: apprendendo come il ventenne che sposava la figlia dell’amico Giordano detto  Buchicco fosse traversato da furori letterari, Bernari gli tese la mano, ma il ventenne non gli chiese  di farsi mallevadore della sua letteratura.

Intanto bisogna tener conto del paesaggio letterario di quel tempo: vi erano per un giovane scrittore  di allora delle polarità altrettanto affascinanti e lo erano doppiamente se lo scrittore in fieri era siciliano; penso a Vittorini che comunque  agiva in una dimensione lontana, iperborea, nelle autentiche capitali della cultura  come Milano e Torino, (tramontando malinconicamente Firenze) spalla a spalla con altre figure in via di future mitizzazioni  come Calvino e Pavese, che si era appena suicidato…Mentre in Sicilia dove tornavo periodicamente incontravo Brancati a Zafferana  - sino al 1954, l’anno in cui morì – e assistevo all’efficientismo frenetico e trascinante di uno Sciascia allora agli albori della definizione di sé stesso, ma generoso con chi gli era più giovane di almeno un decennio, tutto sommato condividendone alla pari, direi con uguale timidezza, le attese. Erano fili sottili, impalpabili: di Vittorini  mi aveva impressionato la sollecitudine analitica con cui stava notomizzando le mie prime  prove letterarie e ne conservavo le lettere con riconoscenza (e Bernari - che me ne mise in guardia, denunciandone l’aspetto ‘paralizzante’  come avrebbe dovuto rivelarsi poi nel D’Arrigo di I giorni della fera/Orcynus Horca- non aveva simpatia per Vittorini, trovava artificiosa la sua cifra stilistica ‘americanizzante’ e  credo gli bruciassero ancora le sue riserve critiche all’uscita di  Tre operai,  quasi una stroncatura, tacciati nel ‘34 di vittimismo rassegnato, estraneo al concetto di ribellione e  di lotta, insomma quella antipatia per i vinti che il fascismo di fronda di allora mutuava in pectore dal marxismo; insomma Bernari non lo considerava estraneo allo spirito di quelle censure di regime che avrebbero perseguitato il suo romanzo);  quanto a Sciascia, da parte mia,  come non solidarizzare con quel suo spendersi nell’isola dove era viva l’eco degli spari di Portella della Ginestra mentre ancora  altro di tetro e tragico andava   maturando, tutto così remoto e lontano dalla Roma cordiale, tiepida, consolatoria in cui mi stavo radicando.…Con Carlo andammo avanti così per decenni, rincalzando quel concetto realistico dello scrittore monade, della sua  solitudine; scartando tra noi ogni tentazione di connubi, conventicole, padrinaggi, quei binari su cui corre il caranvanserraglio della letteratura. Il rapporto si sviluppava piuttosto in un pulviscolo di situazioni affettive; leggevo, rileggevo i libri che andava pubblicando, di alcuni dei quali avevo assistito alla stesura spesso laboriosa e sofferente intrammezzata da epici maldicapo, (il modo di lavorare di Bernari meriterebbe uno studio a parte, senz’altro ricco di suggerimenti preziosi sull’officina quotidiana dello scrittore) accompagnati da dediche ammiccanti -  e quando disposi di pulpiti dignitosi ed efficaci come microfoni e telecamere della Rai o quant’altro della carta stampata glieli presentavo con  puntuale rispetto. Direi che da essi e da ciò che andava accadendo – il rimescolamento degli scenari ideologici  così come si erano delineati a guerra finita, conclusa la catarsi resistenziale che io avevo vissuto bambino  -  ricavai la mia privatissima lezione bernariana, in qualche modo extraletteraria. I fatti d’Ungheria, ad esempio,  come con una certa ambiguità venivano banalizzati dalle cronache internazionali di allora, scatenarono parecchie crisi; crisi ideologiche, di coscienza, esistenziali. Soprattutto in personaggi con un back-ground formativo marxiano  – tutto proiettato nella sua letteratura – come era accaduto a Carlo Bernari. Potrei dire che io vissi vicino a lui quei giorni, persino con una certa giovanile curiosità e titubanza dovuta a quell’implacabile bisogno di coerenza e rigore superlativo che rende inflessibile il giudizio proprio ai ventenni.  Insomma era in atto un allontanamento dall’impegno politico vicino al PCI per spostarsi su una posizione di fiancheggiamento che gli consentiva prospettive più defilate, possibilità di ruoli più meditati e dialetticamente più rilassati.

Tutto qui; ben altro ho avuto da Bernari e di cui gli sono debitore.

Bernari  mi diceva – ed io giovanotto turbatissimo, appunto, dalla preoccupazione di ragionare  per valori assoluti  bevevo questo suo ‘filosofare’ - Bernari mi diceva : ‘tutto è già nei libri, tutti i libri’.

Alla distanza capii cosa realmente  intendesse; cioè che  anche in un’opera mediocre  vi è  sempre un brivido, un corrugamento, una scaglia dell’intelligenza o del sentimento salvabili per l’eternità. Una volta mi condusse a trovare un anzianissimo libraio antiquario,  Pescarzoli, (anche questo un riflesso di quella sua  passione egotista  per la vecchia carta stampata di cui mi contagiai). 

A Roma Pescarzoli, fu un mito dell’antiquariato librario; credo che  Bernari lo conobbe quando in gioventù si trovò a lavorare da Hoepli, nel settore delle  edizioni d’antan. Mi aveva portato da Pescarzoli per procurarci una copia dell’ormai introvabile manuale di storia universale di Cesare Cantù.

Bernari aveva avuto affidata da tal De Fonseca ( che lavorava a metà di investimenti e profitti con la Rizzoli nelle iniziative ancora in fase sperimentale ) la direzione  di una enciclopedia per i giovani tutta da impiantare. Poi uscì con tutt’altro editore, De Agostini, a dispense e con un titolo fiacco quanto pretenzioso, Universo. Generosamente mi rese partecipe di questa impresa di non poco momento, nominandomi sul campo caporedattore. Eravamo sul finire degli Anni Cinquanta, Cesare Cantù aveva cominciato a scrivere la sua opera più importante, una specie di summa della storia del mondo, nel 1883. Insomma settant’anni prima.

“Questo ci può servire” mi disse Bernari prendendo in mano il volume sinottico dell’opera di Cantù.

Ero allibito: il Bernari intellettuale  che ancora in quegli anni, fatti d’Ungheria a  parte, credeva fermamente in incendiarie certezze  fondate  sul riscatto dell’uomo dall’uomo, nel Sole della Rivoluzione  che si Leva ogni Giorno, mi proponeva come strumento di lavoro  il più illiberale, il più irritante per vena moralistica–pedagogica tra gli intellettuali reazionari del secolo precedente. Mentre lui si dava da fare per avere in prestito quei tomi venerandi del Cantù mi chiedevo quanti altri storici a noi più vicini non si erano cimentati in analoga impresa con opere altrettanto imponenti o di semplice manualistica aggiornata, e perchè dovevamo disseppellire Cantù.

“Perché” Carlo sentì il bisogno di spiegarmi “perché Cantù con la sua pignoleria ed il suo spiritaccio sardonico, il suo taglio giornalistico ha raccontato la storia in modo godibilmente impeccabile. Possiamo purgarne le conclusioni. Ma i fatti sono quelli. E’ un concetto economico”

Ecco, questo era Bernari. Un’idea complessivamente economica dell’esistenza e della letteratura come esistenza, che veniva da lontano.

Non so quanto il mio intervento, diciamo, impressionistico, possa contribuire ad aggiornate analisi sulla figura di Carlo Bernari. Del resto  ho sempre pensato come in letteratura non vi sia nulla di più cadaverico e contraddittorio delle ‘sistemazioni’.  Il destino dell’opera d’arte a cui lo scrittore è consegnato si sviluppa su per un’impalcatura tutta particolare, direi singolare ed avulsa spesso dal destino generale del suo autore. Sicchè ogni rimescolamento di carte  nelle definizioni di questo o di quello scrittore fa parte della fortuna dell’artista, tra dimenticanze e grandi ritorni. A proposito di quelle, le dimenticanze, vorrei dire per come l’ho conosciuto, che Bernari tendeva a pianificare il proprio futuro nell’ esistente;  ancora un modo ‘economico’ di vivere la propria vitalità letteraria; convinto   del valore contingente di ciò che stava  fabbricando, Bernari era del tutto indifferente a ciò che sarebbe accaduto dopo. Forse scaramanticamente, comunque   non ne parlava mai. Non per un’esasperata laicità che fa a meno di quell’idea dell’eterno in generale e dell’eterno ritorno in chiave letteraria, e si accontenta - gli importava soltanto - del ‘qui ed ora’. Il fatto è che Bernari era troppo imbevuto di antica saggezza  non soltanto napoletana, meridionale  per non sapere quanto e quante volte egli stesso – tornando a vivere una seconda, una terza esistenza - si sarebbe rimesso in discussione. Mi è accaduto di percorrere considerevoli trance di vita a fianco di scrittori della generazione di Bernari o di altri della generazione successiva, a mezza strada tra la mia e la sua. Per quel che mi risulta ognuno di loro lavorava preoccupato seriamente per il ‘dopo’.  Ne voglio citare uno, Moravia. Moravia negli ultimi anni  esercitò un’attività  schizofrenica  tutta rivolta a fabbricarsi una specie di cenotafio virtuale (e non solo) a garantirgli una sopravvivenza a modo suo. Il terrore di non durare. Ebbe, ad esempio,  incalzanti  contatti con Maria Corti, si affidò anche alle donne che gli erano state più vicine nell’ultima parte della sua vita. Quando morì Elsa Morante, oltre ad impegnarsi strenuamente   perché le venisse accordato quel sostegno della legge Bacchelli, si adoperò molto perché gli anni del loro matrimonio venissero storicizzati in quell’occasione (di speciale attenzione dei ‘media’) perché quello dei due elementi della coppia favorito dalla circostanza che lo voleva protagonista non rubasse la scena all’altro –, non tanto per il presente ma per ciò che del presente poteva essere traghettato nel futuro. Si dice che le vedove degli scrittori, gli eredi in generale siano essiziali per la figura dello scrittore scomparso. Pensiamo a che cosa è accaduto ad Hemingway, della cui vedova  già allora Bernari diceva: ne sta pubblicando pure le scarpe.

Attento ed oculato nell’esistente – sia semplicemente pratico  (penso alle amicizie, ai crediti acquisiti in rapporti interpersonali blindati, da Zavattini a Mimma Mondadori a Vasco Pratolini) sia nella gestione della propria creatività letteraria o pubblicistica – tanto distratto, generosamente indifferente,  come sollevato da un pensiero,  Carlo Bernari era del suo destino di scrittore  oltre la soglia, quando sarebbe successo, in quell’altro mondo dove si impiantano gli allori dell’immortalità, dove  tutto acquista una specie di algida vitalità, una luce da acquario: qui le opere dello scrittore guizzano in lenti giri come pesci da contemplare, ma di cui si suppone l’impossibilità di interferire nel nostro quotidiano. Questo per gli autori assurti al livello di classici quanto a quelli di qualche gradino più in basso.

Questa saggezza bernariana nella fatuità dei destini letterari si nutriva di una sua fervente, direi cieca, fiducia. (Tutto il contrario del pessimismo abissale di un altro autore  anagraficamente a noi più vicino, Bonaviri, il quale non fa che ripetere di sé e della sua letteratura, con garbata civetteria e, secondo me, senza crederci più di tanto: ‘non ne resterà nulla di nulla’).

Ma questa era la fede nel ‘contingente’ che aveva Bernari  per la letteratura. Calata nella vita. E la vita è un valore che si chiarisce mettendo accanto ad ogni concetto un numero. A distanza di anni  però ho compreso  perché Bernari apparisse così indifferente al proprio futuro postumo..

Vedete quali picchi di dimenticanza abbiano toccato scrittori coetanei di Bernari    che sembrava dovessero  rimanere sulle bocche, nei cuori e nei cervelli  di chi si lasciavano indietro senza problemi.  A lui accade diversamente - non soltanto qui a Napoli che fu il generoso serbatoio delle sue ispirazioni – ma in quest’altrove di oggi che è così vasto, elastico, fluttuante abbondantemente persino nell’etere dei media, della fiction: vi sono  progetti che lo riguardano, grazie ai figli Eugenio detto Geggi ed Enrico (che confermano come il DNA non sia acqua  fresca); e grazie alla cura scientifica di  Daniela Bernard.

Ecco, a  proposito delle questioni di metodo e delle  convinzioni  condivise su alcuni aspetti del letterario come  fatto di costume: i premi.  Quando con Pasolini e Moravia, Sciascia e Rafael Alberti fondammo il premio Brancati, un antipremio nato nel ’68,  soprattutto anti industria culturale – come si diceva allora – in una delle successive  edizioni quel premio andò a Bernari; poi lo invitai ad entrare nella giuria, ne divenne presidente…Passarono gli anni, mentre i tempi andavano cambiando. Ed ancora un premio (questo inventato come riflesso di squisita letterarietà ed al riparo da  turbolenze ideologiche), a decenni da quelle prime frequentazioni ci vide insieme in ruoli ribaltati: il premio Gioi che lo annoverava tra i componenti della giuria, nel 1989 fu attribuito al mio romanzo GLI ASTRONOMI, pubblicato da Sellerio (e mi dispiace molto che Bernari non sia qui poiché da quel libro mio figlio Diego ha tratto il suo primo film, mi spiace molto proprio perché Carlo, con la sua sensibilità di autore che tanto aveva dato al cinema, come si vedrà in questa mostra, ravvisò   quanto di cinematografabile - quasi una sceneggiatura fu scritto nella motivazione - vi è in quel romanzo). Ecco questo fu il massimo che ci concedemmo in fatto di amicizia anche letteraria, ma è ovvio che premiare Bernari  con il Brancati torna ad onore di quel premio; e quanto al Gioi so che il rigore, la pulizia, l’estraneità ai giochi delle strategie di Premiopoli di quella giuria, di cui alcuni sono qua presenti mi conforta sull’averlo veramente meritato.  

Per concludere torno a quel primo grande libro,  quel Tre operai che contempera due primati. Certo il primo ‘grande libro’ neorealista della letteratura italiana, ma anche, forse soprattutto, la prima indagine letteraria dove  l’introspezione lascia i territori  medio-alto borghesi e si  cala a sondare sensibilità, come dire, sistemi nervosi,  pulsioni del mondo proletario raccontandolo dal di dentro, inseguendolo nella dinamica di processi mentali, di affettività psichica in maniera partecipativa e non come se li avesse studiati per interposta persona come era fin lì accaduto. In questi giorni bui in cui vediamo scendere in piazza gli eredi infiniti di quei tre operai - e sono le sublimazioni catartiche nel perdurare della memoria  di cui è capace la letteratura - ecco riaffacciarsi l’estrema, economica attualità della letteratura di Bernari.

Di un   Bernari che  era sempre rapito, e pronto a ravvisarli, da questi rapporti del valore idealmente, persino sentimentalmente concreto  e pratico della letteratura. Del suo farsi, dell’ostinazione nella perseveranza  della scrittura e riscrittura sino all’annientamento di sé, insomma l’inchiodarsi davanti al foglio bianco in tempi e modi che non ammettono sdolcinature di stati di grazia ed attesa di ispirazioni. Il lavoro letterario come categoria proletaria. Questo è il mio personale debito contratto con Bernari. Quell’economia letteraria così generosa da impiantarsi finanche  nelle nuvole  ma che finanche dall’inconsistenza delle nuvole ricava i suoi frutti sostanziosi.   grazie