Incontro internazionale ASPEN

“Le sfide dell’Europa e del Mediterraneo”

Barcellona, 22-4 novembre 2002-12-04

 

Intervento di Predrag Matvejevic’

Presidente del Comitato Scientifico Internazionale della Fondazione Laboratorio Mediterraneo

 

Il mare non lo scopriamo da soli e non lo guardiamo solo con i nostri occhi. Lo vediamo anche come lo hanno guardato gli altri, nelle immagini e nei racconti che ci hanno lasciato: veniamo a conoscerlo e lo riconosciamo al tempo stesso. Abbiamo conoscenza anche dei mari nei quali non ci specchieremo né c’immergeremo mai. Raramente la visione del Mediterraneo è del tutto autonoma. Di solito si preferisce utilizzare le vecchie carte piuttosto che le nuove, così come ci figuriamo prima le navi di una volta che non quelle del nostro tempo. Le carte del passato hanno perduto la precisione e l’affidabilità, i loro colori sono sbiaditi e svaporati: un po’ come avviene per il ricordo e la memoria. Sulle loro superfici cerchiamo i mari che continuano ad essere sempre simili a quello che sono stati e altri che sono diventati diversi. Proseguiamo le navigazioni cominciate tanto tempo fa o ne iniziamo da soli delle nuove. Seguiamo coste che sono ben note o scopriamo quelle che non lo sono. Tutte le questioni del mare e della terra tornano a porsi sulle carte: le forme dell’uno e dell’altra, le loro reciproche relazioni, il modo di evidenziarle e di rappresentarle. Una carta riassume numerose conoscenze ed esperienze: lo spazio e la concezione spaziale, il mondo e la visione del mondo. L’elaborazione cartografica richiede altresì del potere: del sostegno in mare e sulla terra, nella marina e nello stato. Navigando lungo la costa adriatica, da un’insenatura all’altra, da un’isola all’altra, qualche volta ho avuto la sensazione che le carte non siano sempre necessarie. Facendo rotta nell’Egeo e nello Ionio su velieri che portavano i nomi di Hydra e Dodekanesos ne ho conosciuto meglio l’utilità.

Su altri mari ho navigato poco. E sugli oceani non mi sono spinto mai. L’Hydra aveva preso il nome dall’isola dove si trovava il suo ancoraggio. Il primo timoniere di bordo, nativo di Salonicco (uno di quegli uomini saggi e abili come ce ne sono sempre stati su queste coste), oltre all’amore del navigare, aveva altre due passioni: il ladino in cui si esprimevano i suoi antenati e le vecchie carte alle quali si era dedicato. Avrebbe voluto che la lingua sefardita potesse diventare lingua franca sul Mediterraneo. E di carte s’intendeva più di chiunque altro io abbia mai incontrato. Da lui ho imparato la maggior parte di quello che ne so, nel corso di due viaggi, in primavera e in autunno.

Ho avuto modo di sfogliare ed osservare, nel corso degli anni, vari atlanti nelle biblioteche, in diverse parti del mondo. (Si tratta di navigazioni d’altro genere, delle quali in questa circostanza parlerò meno). Mi sono fermato in posti dove un tempo c’erano dei porti, li ho cercati sulle carte per confrontare ciò che di essi era rimasto rispetto a quello che erano stati (…) Molti porti hanno cambiato nome, alcuni sono scomparsi del tutto. La loro storia, se già non è stata scritta, non lo sarà mai più. Qui non serve stare a ripetere la storia delle carte antiche, non tenteremo neppure di spiegare la scienza che le ha prodotte: esse non possono farci scoprire il volto del Mediterraneo, ma appena le rughe del suo viso.

Le carte dovevano esistere da tempo immemorabile, solo che non ne possiamo conoscere l’aspetto. Le accompagnavano le annotazioni dei logografi (in tema di venti e correnti, isole e scogli, acqua potabile, convenienze e rischi della navigazione), ma neppure questi appunti ci sono pervenuti. Erodoto dei suoi peripli per il Levante ebbe modo di vedere le tavole di bronzo sulle quali erano stati incisi e segnati “tutti i mari e i fiumi”, ma i naviganti fenici non avevano voluto mostrargliele da vicino. La carta era una componente strategica (le città, gli stati, i mari): i popoli marinari la custodivano in segreto. La sua denominazione in greco era pinaks: con lo stesso nome venivano indicate le tavolette per scrivere, quelle astrologiche e anche i grandi cataloghi. Ecateo di Mileto (gli amatori dei luoghi comuni aggiungono accanto al suo nome l’attributo di “padre della geografia”, come del resto per Erodoto parlano di “padre della storia”) indica le carte come periodo della terra, mentre Apollonio Rodio, nelle argonautiche, le chiama Kyrbeis: erano le tavole disposte in forma di piramide sulle quali venivano scritte le leggi, i giuramenti, i poemi epici di Omero. Che, visti in questo ordine, nella storia del Mediterraneo sono le carte più antiche.

La nozione di viaggio e quella di navigazione sono vicine l’una all’altra e qualche volta si sostituiscono fino a sovrapporsi e identificarsi. E tuttavia i popoli di mare continuano a distinguerle e differenziarle più degli altri.  La tradizione greca separa ciò che è periplous da ciò che è anabasis. La periegesis si compie tanto sulla terra che sul mare; allo stesso modo è chiamata la descrizione di simili percorsi. I contorni degli spazi terrestri e di quelli marini sono rappresentati su supporti diversi e fatti con diversi materiali: su tavolette di creta, in bronzo o in pietra, su legno, pergamena o papiro, in mosaico, tessuto, tappeto o tappezzeria, su monete, pareti o altari. Dal supporto e dal materiale non dipendeva solo il modo in cui veniva rappresentato il mare, ma altresì il posto che la sua immagine aveva nell’ordine delle cose. Salomone, costruendo il grandioso tempio di Jahvèh, a Gerusalemme, aveva ordinato di fondere nel bronzo il mare in forma di cerchio, per una circonferenza di trenta gomiti e per un’altezza di cinque, con tre figure di buoi da ogni lato, con la funzione di portatori e di sostegno. Le Sacre Scritture trasferiranno questa immagine al popolo cristiano lungo tutto il Mediterraneo: molti fra noi ne sono gli eredi.