On. Biagio de Giovanni

Deputato europeo, Presidente Commissione Affari Istituzionali del Parlamento Europeo
Membro del Comitato Esecutivo della Fondazione Laboratorio Mediterraneo

Grazie signor Beneyto. Il professor Monti chiedeva brevemente di reintervenire. Io vorrei, con assoluta discrezione di tempi in quanto moderatore, porre velocemente tre questioni e naturalmente, dopo l'intervento del professor Monti, avremo il tempo per qualche altro brevissimo intervento.

La prima: raccogliendo un po' un aspetto del ragionamento di Cacciari quando diceva che l'Europa è questo conflitto, questo insieme; quindi è sbagliato parlare di Europa mediterranea e bisognerebbe invece parlare della complessità del tema Europa che comprende il tema Mediterraneo.

Il primo punto però è questo: in questo momento, dopo la riunificazione tedesca, c'è una fortissima spinta obiettiva dell'Europa verso nord; quindi, in un convegno come questo dove si afferma che gli elementi diplomatici non debbono prevalere sugli elementi di vera discussione politico-culturale, io pongo questa questione che mi pare urgente, importante; si potrebbe addirittura dire che c'è una spinta baltica più che una spinta mediterranea, nel senso di una forte concentrazione in quella zona di energie, di economie e di aggregazioni.

Non vorrei portare il dibattito immediatamente sul piano politico, ma credo che dopo Barcellona le difficoltà di una politica europea verso il Mediterraneo sono enormemente aumentate e non diminuite.

Secondo me, il fatto che l'unione monetaria abbia con molta probabilità una base assai larga e cioè lontana dall'originaria ipotesi tedesca dei cinque Stati a nucleo forte, tutti concentrati nel centro-nord d'Europa, è un elemento importante. È un elemento importante perché dà a Spagna ed Italia un ruolo che non avrebbero avuto se l'ipotesi di unione monetaria fosse stata quella di un nucleo estremamente ristretto di Stati con intorno una larga corona di altri Stati tendenzialmente meno influenti e meno importanti. Questo dato potrebbe correggere quello che la riunificazione tedesca ha posto in maniera evidente. Si dovrebbe parlare di riunificazione dell'Europa, tuttavia continuiamo non a caso a chiamarlo allargamento, allargamento verso est e spostamento a nord del baricentro dell'Europa; questo è un dato che dobbiamo avere presente, altrimenti continueremo a discutere, anche in maniera molto interessante e prospettica, e poi ci ritroveremo in una situazione difficile nei prossimi anni.

La seconda questione che volevo porre è questa e anche qui riprendo uno spunto del professor Cacciari: la difficoltà dell'Europa politica già accennata da Podestà e da altri, la difficoltà di parlare con una voce unica, soprattutto in politica estera, è una cosa clamorosa; noi abbiamo una presenza commerciale e non una presenza politica, laddove gli scenari mediterranei hanno bisogno di presenze politiche. Se dovessimo fare una diagnosi del perché il dopo Barcellona è entrato in crisi, mi pare che lo dicesse il vice-ministro degli Esteri della Repubblica egiziana, potremmo dire che si è acuito il contrasto israeliano-palestinese, per il quale non c'è stata nessuna capacità d'intervento da parte dell'Europa, perché non esiste una Europa politica. Quindi il fatto che l'Europa non parli con una sola voce è un problema enorme e secondo me non basterà semplicemente l'accordo di libero scambio del 2010 non basterà semplicemente mettere l'accento sulla dimensione economica, anche se fondamentale; è venuto il momento in cui dobbiamo dire addio alla vecchia idea di un'Europa che, passo dopo passo e funzionalisticamente, cresce su se stessa e riguadagnare una sorta di primato della politica, affinché l'Europa possa porsi come potenza democratica che discute e che opera.

Terzo punto: tutto questo pone il problema della necessità di uno spazio politico euromediterraneo. Vorrei mettere l'accento su un solo problema che è stato sollevato da molti: io credo alla importanza del dialogo culturale, per la ragione che l'idea di una omologazione alla nostra cultura non regge e non reggerà mai. Ora il dialogo culturale ha una premessa: il riconoscimento reciproco, perché le appartenenze e le forme di vita fondamentali nelle quali la cultura si sviluppa sono tutte da rispettare. Questo è un punto chiave, perché se c'è un processo come dire, egemonico, calato dall'alto e da una sola parte, evidentemente questa possibilità non regge, questa possibilità non emerge. C'è stato un seminario a Roma, in questi giorni, per capire l'Islam, per uscire cioè dai luoghi comuni e rivedere i processi di costituzione della cultura moderna nell'area mediterranea e i contributi che le diverse culture hanno dato alla fisionomia di questa area.

Questi sono punti fondamentali, naturalmente non per immaginare di mettersi ad un tavolo a discutere e a rispettarsi reciprocamente, perché questo è fin troppo facile; ma perché questo diventi anche principio di una politica, politica che si può fare sulla formazione, dando alle complementarità economiche il loro ruolo fondamentale, come sottolineato anche dall'intervento del professor Monti. Tutto questo ha un contorno di problemi che riguardano cose che il Parlamento Europeo ha detto e che rischiano di restare sulla carta se non c'è una forte volontà politica. Volevo porre queste tre questioni che mi paiono importanti per stimolare quest'ultima fase del dibattito dando nuovamente la parola al prof. Monti.

Prof. Mario Monti

Grazie, signor Presidente. Le cose dette dal professor Cacciari in particolare destano il più profondo interesse. Le linee di integrazione economica che io avevo menzionato, mi pare dica il professor Cacciari, hanno implicazioni profonde e pongono problemi dei quali bisogna essere consapevoli, non per rigettare l'integrazione economica che anche lui considera necessaria, ma per gestire e affrontare questi problemi e credo di essere completamente d'accordo.

Sono attratto e al tempo stesso turbato, come credo noi tutti, dalla globalizzazione e dall'integrazione per due motivi. Primo: è possibile una globalizzazione, una integrazione senza spazzare via il ruolo dei pubblici poteri rispetto al mercato, ma piuttosto spazzando via o rendendo più difficile l'esercizio arbitrario e eccessivamente discrezionale dei pubblici poteri? Questo è un quesito che mi appassiona e credo che se guardiamo la storia degli ultimi decenni dei singoli Stati dell'Unione Europea, non possiamo non constatare che il doversi integrare li ha cambiati, e non solo nella loro struttura economica; ha inciso profondamente sulla vita politica, imponendo più trasparenza, minore arbitrio, sollecitando al rispetto di regole di concorrenza e alla riduzione dei disavanzi pubblici. Questo ha creato un humus meno favorevole all'arbitrio delle classi politiche, l'abbiamo visto anche in Italia.

Ma dobbiamo accettare una globalizzazione che addirittura impedisca l'esercizio delle funzioni essenziali dei pubblici poteri, come quella verso cui stiamo andando? Ritengo che non possiamo accettare una siffatta globalizzazione e quello che occorre fare, come mi pare abbiano detto il professor Cacciari e il presidente Podestà, con parole diverse, è la ricostituzione, a livello sopranazionale, di alcuni strumenti di intervento che sono tipici dei pubblici poteri.A me pare, per esempio, che gli sforzi che si stanno facendo in Europa per il coordinamento della fiscalità vadano proprio in questa direzione; cioè, in mancanza di un minimo coordinamento della fiscalità, quella funzione ridistributiva, che i pubblici poteri hanno sempre avuto e che consente tra l'altro di compensare i perdenti dal processo di integrazione rendendolo socialmente accettabile, non potrebbe più essere esercitata.

Secondo quesito: ascoltando Cacciari e riflettendo sulla globalizzazione e sulla integrazione mi chiedo se l'integrazione, in particolare quella regionale, debba necessariamente omologare, passando come una pialla d'acciaio che appiattisce. Il presidente de Giovanni poco fa ci diceva che c'è uno spazio per il riconoscimento reciproco. Ma questo è proprio un termine tecnico su cui si fonda il mercato unico europeo che ha deciso di non procedere solo con la pialla dell'armonizzazione ma lasciando spazio alle singole realtà nazionali con lo strumento del riconoscimento reciproco e credo che questo modello sia proponibile anche all'altra sponda del Mediterraneo; l'Europa ha inventato un modello di integrazione regionale che è stato accolto in questi ultimi anni perché trovato utile nelle zone più disparate del mondo.

L'accordo NAFTA negli Stati Uniti, la zona APEC nella comunità Asia-Pacifico, è un modo per integrare regionalmente senza, io spero, appiattire e piallare completamente, dal momento che la globalizzazione esiste e che anche i Paesi della sponda sud del Mediterraneo, lo vogliano o no, sono presi in una realtà economica competitiva di globalizzazione.

Mi chiedo se non sia interesse anche di quei paesi in primis, oltre che dell'Unione Europea, individuare forme non appiattenti di integrazione regionale che consentano a quei paesi di vivere meglio quella competizione internazionale nella quale sono comunque immersi, creando le condizioni per maggiori investimenti europei ed internazionali sulla sponda sud del Mediterraneo, creando anche le condizioni per cui i conflitti tra visioni della vita e del mondo che devono permanere diverse possano essere meglio gestite, anziché trovare sfogo solo nella massiccia immigrazione in Europa, generando una situazione in cui il conflitto si manifesta nel modo più difficile. Grazie.

On. Guido Podestà

Vorrei fare tre rapide osservazioni. Primo: citare una frase di Cacciari che dice "non possiamo fingere rappresentanze e democrazie virtuali"; questo è importantissimo e ci trova tutti perfettamente d'accordo, altrimenti andiamo avanti con un magma in ebollizione, pensando di avere gli stessi reticoli cristallini che hanno retto in passato e che invece adesso dobbiamo ripensare.

Seconda osservazione: il rapporto tra globalizzazione e realtà statuale, come l'abbiamo pensata fino adesso, e momento più locale, conseguente allo sviluppo di una realtà di telecomunicazioni, di televisione e di quant'altro ci porta a essere cittadini del mondo; nello stesso momento dobbiamo ritrovare rifugio in una realtà più vicina a noi, perché altrimenti ci pioverebbero addosso un insieme di stimoli che oltre un certo limite non riusciremmo neanche a sentire più nostri. Credo che ci sia, dappertutto nel mondo, questa tendenza ad un momento di aggregazione e di vita del cittadino, molto più locale, molto più regionale; qui non solo sposo certi accenni fatti in relazione alla creazione di regionalizzazioni emersi fuori dall'Unione, ma credo che dobbiamo ripensare, in base anche all'insegnamento di Spinelli, quello che può essere un futuro nostro come Unione Europea.

È stato dato ancora uno stimolo in relazione al ruolo di Spagna ed Italia che credo fondamentale, senza nulla togliere alla Francia, che evidentemente ha una presenza straordinaria nell'area mediterranea. Mi sembra però che questi primi due paesi possano e debbano giocare un ruolo di equilibratori rispetto a quella spinta verso nord. Da questo punto di vista, due considerazioni rapidissime: a 9 o a 11, lo vedremo, ma questo non sarà irrilevante in questo ragionamento che stiamo seguendo e di conseguenza la grande responsabilità che i governi attuali hanno è che si entri a 11 e possibilmente vivi.

Dott. José Vidal Beneyto

Due commenti molto brevi. Il primo riguarda il ruolo dell'Europa in questo insieme di macroaree regionali. Credo che una delle cose più positive che sia capitata in Europa è che noi europei abbiamo esaurito la nostra volontà imperiale. Voglio dire tutti i nostri Stati, grandi Stati, sono stati in un certo momento i padroni del mondo. Oggi l'Europa non è più imperialista e questo è molto positivo, ma rimane molto spesso paternalista e questo non è altrettanto positivo. È chiaro che la costruzione europea è un modello molto interessante e senza dubbio il più avanzato di integrazione macro-regionale, ma paradossalmente nessun modello è "modellico", si tratta di indicazioni e questa è una cosa che si sente molto. Quando si paragona il modello europeo in altri contesti, per esempio in America del Sud, i nostri amici e compagni di MERCOSUR non sono sempre contenti, per esempio quando arriviamo in Brasile, in Argentina etc., con delle soluzioni miracolose che abbiamo trovato in Europa.

Il secondo commento riguarda il fatto che nonostante l'Europa abbia una funzione capitale nel mondo, la globalizzazione non dipende da noi. Gli Stati Uniti sono oggi il grande padrone; però non sanno veramente come giocare il loro ruolo imperiale e non hanno un modello che conviene a tutti. Così per noi europei proporre un modello alternativo a quello nord-americano è molto importante. Mi fa molto piacere sentire i Commissari europei parlare sempre di modello europeo di società. Io credo che sia per noi un valore capitale che va difeso senza ostentazione, senza imperialismo, senza paternalismo, ma che va presentato come un'alternativa, pensando che noi siamo tutti soggetti ad una molteplicità di appartenenza e questo vuol dire che non siamo solo europei, siamo europei ma al tempo stesso mediterranei e questa coesistenza simultanea di appartenenza è alla base di un mondo più vivibile. Grazie.

Prof. Massimo Cacciari

Sono rimasto un po' perplesso dagli ultimi interventi e dall'ultimo in particolare. Quando si dice che è esaurita la volontà imperiale europea si potrebbe anche voler dire che è esaurita perché si è compiuta perfettamente, perché ormai non c'è più nulla da conquistare, perché la cultura che bene o male è nata qui è, o è in procinto di essere, la cultura planetaria. Si potrebbe anche pensare questo e certamente se non si affrontano i problemi del libero scambio nei termini che ora ha detto e precisato Monti, potremmo davvero pensare che la volontà imperiale europea si è esaurita perché si è perfettamente compiuta.

Io credo di capire quello che si è detto ora riguardo alla specificità dei modelli sociali, politici e culturali europei e credo sia essenziale comprenderla bene e difenderla, sviluppandola e, ovviamente, trasformandola e riformandola. Ma temo che sarà davvero molto difficile perché ritengo che a breve, una volta compiuto il processo di integrazione, non sarà più questione di competizione di questo o di quello Stato, di questo o di quel sistema economico nazionale, ma diventerà una drammatica questione di competitività di tutto il sistema europeo rispetto al Far West. Allora si vedrà, come dice il poeta, la nostra nobilitade, se saremo in grado di difendere, trasformandolo, il nostro modello sociale e culturale rispetto alla sfida massiccia che l'Europa tutta, a quel punto, dovrà sostenere nei confronti del sistema socio-economico americano e dei colossi che vanno emergendo dall'altra parte del mondo. Far West, colossi della dimensione della Cina, dell'India, lì si vedrà se riusciamo a non diventare americani anche noi. Io credo che diventeremo americani.

Dott. José Vidal Beneyto

Questo sarà una nostra responsabilità, perché come europei non siamo capaci di pensare a delle possibilità alternative al mercato. Come è possibile che la Cina sia obbligata a prendere il mercato come strumento economico per la regolazione della produzione e della circolazione? È la nostra deficienza, la nostra incapacità di europei inventori del sistema di creare una alternativa.

Prof. Massimo Cacciari

La Cina sta diventando una dittatura di mercato con un sistema economico dittatorialmente orientato all'ottenimento di quei fini che poi, alla lunga, sono fini di competizione internazionale. Lo sta diventando l'India, lo sta diventando la Cina: questo è il Far East. Dall'altra parte ci sono ovviamente altre risorse e una capacità di sviluppare l'innovazione, un dinamismo sociale, una elasticità, una mobilità di fattori che in Europa come si possono ottenere difendendo il sistema attuale? Qui si porrà la questione; naturalmente è impensabile che l'Europa possa diventare di nuovo Europa mediterranea se non svilupperà, approfondirà ed arricchirà il modello attuale, perché un'Europa americana tutto potrà fare fuorché dialogare culturalmente, economicamente e socialmente con i paesi del Maghreb, con i paesi africani, con l'Islam; questo non è possibile nemmeno nel paese di Utopia. La possibilità di un'Europa che approfondisce, sviluppa e ripropone la sua vocazione mediterranea è strettamente collegata al presupposto minimo che riesca a difendere, a sviluppare e a trasformare il suo modello sociale e culturale; se non ce la farà, il discorso che stiamo facendo sull'Europa mediterranea è perfettamente campato in aria. Se cioè nella competizione con gli Stati Uniti e con i Paesi emergenti dell'Est l'Europa dovesse trasformarsi nel senso di quei modelli, di quei sistemi sociali ed economici, il dialogo mediterraneo, il rapporto con il Mediterraneo, la sua vocazione mediterranea, diventerebbero chiacchiere.